Le Ande viste da Santiago sono impressionanti, compaiono all’improvviso quando si abbassa lo smog verso sera e superano con il loro color viola in altezza i grattacieli della città, uno spettacolo abbagliante, almeno per il viaggiatore. Infatti gli abitanti di Santiago non se ne accorgono, gli voltano le spalle, dice Patricio Guzmán in La Cordillera de los sueños, non si accorgono delle montagne che li separano dal resto del mondo. Neanche Guzmán ci faceva caso quando era ragazzo («la mia generazione era impegnata a cambiare il mondo, non era interessata alle Ande, non erano rivoluzionarie»). Come in tanti altri paesi che hanno subito la dittatura l’esaltazione del paesaggio è considerata uno strumento di distrazione, di propaganda turistica per le dittature, ne abbiamo talvolta parlato con cineasti greci, argentini. Ma nel film di Guzmán le Ande non sono da ammirare, o da scalare, sono un veicolo di viaggio nel tempo, un gigantesco sipario che avvolge la solitudine, un gigante che tutto osserva e ricorda. Ben presto diventano un grande dipinto, poi una immagine pubblicitaria, il punto di osservazione per comprendere il Cile di oggi.

Il magnifico film ora nelle sale, presentato a Cannes nel 2019 è come uno scrigno del tesoro, che un po’ alla volta rivela i suoi segreti. Con la sua arte il regista incontra artisti, scultori, scrittori e cineasti, «i guardiani» che vegliano sulla bellezza del paese. Con una impostazione documentaristica classica, voce fuori campo e interviste dà vita a un miracolo di stile aggiungendo un ritmo crescente di elementi.

A un angolo di strada la facciata di una casa di primo novecento logorata dal tempo dà vita a un abisso di emozioni, quando la camera si alza a scoprirne le rovine, attraverso il tetto crollato e i muri portanti resistenti al tempo. La ripresa resta a lungo nella memoria, avanza come una metafora del paese con le sue rovine, accanto all’immagine rampante del neoliberismo che ha cambiato il volto della città con i suoi moderni grattacieli. Ma prima ancora Guzmán ci porta a visitare la seconda casa della famiglia, dove lavorò a La batalla de Chile, documentario imprescindibile che non ha mai perso la sua forza, perché trasmette l’entusiamo dell’epoca di Allende, così come le tensioni che portarono al colpo di stato: «Il giorno del colpo di stato tornai a casa con l’ultima bobina del film. Il film è lo specchio di un passato che mi perseguita». Farsi raccontare nuovamente le paure, l’arresto, lo stadio che rinchiudeva i militanti, lo stesso del campionato dove il Cile aveva battuto l’Italia, i motivi dell’esilio perpetuo, è una storia personale che non si può chiedere di raccontare ancora: c’è questo e gli altri suoi film a parlare chiaro con tutta l’emozione ben controllata sotto forma artistica. Un’emozione in più è data dal fatto che dà la parola a chi invece è rimasto nel paese, a un filmmaker come Pedro Salas («lui è rimasto, io sono andato via»), a uno scrittore come Jorge Baradit: loro sono come uno specchio dove guardare i destini di militanti delle nuove generazioni: la raccolta di tutti gli avvenimenti dagli anni ottanta in poi registrati in video da Salas come, nei libri di Baradit, la scrittura che si ostina a cercare il sottotesto di una vicenda storica incomprendibile per ferocia.

Guzmán accompagna con la sua voce narrante lo spettatore nel paese dove non è mai più tornato a vivere, ma sempre presente nei suoi lavori, nel Cile contemporaneo dove c’è ancora una buona parte della popolazione che non vuole credere a quello che è successo, minimizza, parla di esagerazioni, di «alcuni errori commessi», si inorgoglisce per i risultati raggiunti dal neoliberismo con una Costituzione che lo favorisce. Ma ecco che a maggio con le elezioni qualcosa sta cambiando.

Sono passati due anni dalla presentazione del film a Cannes, crede che ci sia stato un reale cambiamento nelle ultime elezioni di maggio?
Tutto dipende dal lavoro che faranno le commissioni che stanno cercando di cambiare la Costituzione. Credo che sia un gruppo di lavoro interessante, sono stati eletti appena adesso, quindi tutto resta da vedere, manca una vera organizzazione del lavoro, dalla prossima settimana cominceranno a organizzarsi per lavorare. Penso che sia l’unico modo per cambiare veramente la Costituzione per costruire un Cile più moderno, migliore.

In Cile si pensa che il paese sia già moderno, è chiamato la Pantera del latinoamerica
È un mito. Era un mito che la destra ha creato, non è pantera, né leone, né niente di simile: è un paese con gravi problemi di salario, di salute, di educazione. È stato questo che ha fatto scoppiare la situazione a Santiago. È un paese in costruzione, bisogna sperare e vedere quello che succederà nei prossimi mesi.

È sembrata una vittoria anche la presenza nell’assemblea di nativi eletti, ma la maggioranza di loro non ha voluto iscriversi nelle liste elettorali.
Il problema dei mapuche è piuttosto complesso, è un grave problema ed ha aspetti diversi. Bisogna aspettare un poco finché si calmino gli animi e cominciare di nuovo. È un dialogo difficile.

Il lavoro della memoria in Cile secondo il suo film sembra essere bloccato per la maggior parte della popolazione. È un processo che investe tutto i latinoamerica, compresa l’Argentina, anche se in maniera diversa.
Sì, il problema della memoria non ha fine. Ad esempio ho appena finito di vedere un film che mi hanno inviato dal Cile, un film straordinario di Sebastian Moreno (La Ciudad de los fotografos) su un vecchio operatore che faceva foto, tutto il suo lavoro è sulla memoria. Questo per dire che ogni anno esce in Cile un film sulla memoria, sia di un pittore, uno scrittore, un fotografo o di un altro cineasta. C’è un grande gruppo di intellettuali cileni occupati costantemente sul tema della memoria. C’è una gran quantità di persone in Cile che non vuole sapere nulla del passato, che dimentica che nel passato sta il futuro. È il problema di un paese traumatizzato da una dittatura e da molti anni di governo democratico che hanno svuotato la mentalità della gente.

Che ruolo ha oggi la televisione nazionale nel mostrare un paese immaginario?
La televisione è piuttosto di basso livello, con carenze. Quello che accade è che sono comparsi molti piccoli canali che sono molto più interessanti, di proprietari di piccole società. È interessantepoi il problema della radio: ci sono molti programmi alla radio che hanno anche un’emissione televisiva il che è interessante perché poco a poco i grandi canali si ritrovano senza il grande pubblico che avevano prima.
Ci sono molti programmi infornativi, molto dialogo. In Cile c’è una grande tradizione di dialogo: tre persone si mettono a parlare dei problemi di attualità e questo si trasforma in un buon dibattito sulla realtà. Il Cile è un paese enormemente informato su quello che succede a loro, chiuso in se stesso. Si discutono i problemi più piccoli, si tornano ad analizzare. Il problema è che è un paese isolato, si parla solo di questo, se uno chiede a un cileno cosa succede in Perù non lo sa. Peggio ancora per l’Europa, la comunicazione internazionale è minore di quello che succede all’interno. Si danno notizie internazionali in televisione, ma lo spazio dedicato a loro è assai piccolo.

Questo spazio occupato nell’etere è come la piazza dove incontrarsi, un luogo che lei dice nel film essere sparito nel nuovo disegno delle strade e dei grattacieli della capitale, dove la gente si trova disorientata e sola. Una nuova piazza virtuale.
Sì, per ora è una piazza virtuale. Non bisogna dimenticare che la pandemia è ancora presente. Il Cile è in una situazione migliore dell’Argentina, ma la situazione è grave perché non c’è sufficiente attenzione alla popolazione. Perù e Bolivia sono in una situazione ancora peggiore, ma la crisi dell’epidemia non è passata, è come in Europa sei mesi fa. Il sistema di vaccinazione è abbastanza buono, ci sono luoghi deputati a farlo e la gente vi accede con regolarità e ordinatamente. Questo funziona bene, il problema è che manca molto per vaccinare tutti.

Il suo film è misterioso anche perché offre infinite vie da seguire, tante scoperte, come gli artisti e lo scrittore Jorge Baradit tradotto ancher in italiano, con la sua ispirazione «fantascientifica» che si sa essere stata anche una sua passione.
Baradit è uno scrittore che ha scritto di fantascienza tempo fa, ma i suoi ultimi libri sono esclusivamente della realtà cilena. Ha scritto sei o sette libri molto interessanti sulla dittatura, sui governo democratici, su Pinochet, sul ruolo di Allende. Ha creato una «Storia segreta del Cile» composta da cinque libri, molto interessanti, l’analisi attuale di tutto quello che è successo nel paese. Sono libri storici ma scritti con un linguaggio semplice che tutti possono capire, con vendite spettacolari, 200 mila, 300 mila copie, che in Cile sono altissime. È un grande divulgatore della storia, è un personaggio stupendo: adesso ho di fronte a me quattro suoi volumi, il secondo, il terzo, il primo. E c’è un libro speciale su Pinochet e un altro su Allende. È interessante che uno scrittore come lui, giovane, alla moda, si metta a scrivere sulla storia recente e tutti lo comprano e lo leggono. È stupendo il fenomeno Baradit. Fa parte dei delegati, si presentò alle elezioni ed è stato eletto.

Anche il giovane cinema si è rivolto alla storia del paese, penso ai film di Larrain.
Sì, ma i film di Larrain secondo me sono poco verosimili. La cosa positiva è che si dedica ai fenomeni storici recenti, ma ci sono tanti documentaristi cileni che si dedicano allo stesso periodo però in maniera differente. La filmografia di Larrain è molto interessante come fiction, ma quello che mette in scena è un punto di vista abbastanza soggettivo di quello che è successo in Cile. Mi piace, abbiamo avuto spesso delle conversazioni, ma non condivido tanto il suo punto di vista storico.

Molti cineasti cileni vanno al sud come a scoprire un luogo sconosciuto
C’è un movimento di documentaristi ormai abbastanza di lunga data, abbiamo cominciato da tempo, quando feci La batalla de Chile, Carlos Flores, Pedro Chaskel e molti altri, così da creare una tradizione documentaristica cilena. I giovani si dedicano a una enorme quantità di tematiche: è molto interessante, per me è il miglior elemento del movimento culturale che c’è oggi in Cile.

È come se il testimone fosse passato da Joris Ivens a lei, a Salas, agli altri delle nuove generazioni.
Sì è una catena di influenza europea cominciando da Joris Ivens e anche Chris Marker e poco a poco si crearono dipartimenti universitari di cinema documentario e grazie a un festival che fondai già trent’anni fa a Santiago il movimento andò migliorando e oggi si sostiene da solo, è diventato forte e tutti si presentano ai festival internazionali di tutto il mondo e c’è anche un piccolo pubblico nazionale che ama il documentario. I canali della televisione ci aiutano anche se con poco. La televisione non analizza, è un continuo di notizie senza analisi né approfondimenti rispetto al nostro che è un lavoro più consapevole soprattutto rispetto alla storia del nostro paese.

So che la televisione non ha materiali di archivio
Se ci servono materiali di archivio li prendiamo negli Stati Uniti o in Europa, è un paradosso.

Pablo Salas nel film è mostrato lui stesso come un archivio vivente
Pablo cominciò da molti anni, negli anni ottanta a Santiago ed ha una grande casa completamente piena di video che ha filmato anno dopo anno. Il suo lavoro storico è una ripresa perpetua, interminabile di quello che succede. È un corrispondente di se stesso, autonomo, indipendente e non lavora per nessuna istituzione se non per la sua stessa sensibilità. È un uomo straordinario, un saggio dell’immagine che con la sua piccola camera, anno dopo anno ha scritto la storia della sua patria con piccoli contributi che sommati compongono la storia del Cile. È un personaggio da ammirare, non c’è nessuno come lui in America Latina.

Andando indietro nel tempo, la «Batalla de Chile» si presentò alla mostra del nuovo cinema di Pesaro nell’81. Ha qualche ricordo di quell’edizione latinoamericana con Birri, Solanas, Rocha, i cubani? Nicaragua?
Per anni l’abbiamo considerata come una grande capitale del cinema. Ricordo perfettamente Birri, ricordo che tutto cominciò con La hora de los hornos di Solanas e Pesaro si trasformò in una città che ci univa e ci consentiva di vedere i film degli altri cineasti: i film cubani, del centro America, del Messico, si vedevano a Pesaro prima che in Cile ad esempio e questo per noi era un regalo, era un festival stupendo.
Di tutti i festival europei Pesaro è stato un punto di riferimento per tutti i latinoamericani per la sua profondità, gentilezza, accoglienza, per i testi che si pubblicavano. È stato un luogo fondamentale per il movimento cinematografico latinoamericano. Non c’è stato niente di simile al mondo come Pesaro.

La Trilogia è terminata o continuerà?
La Trilogia è terminata, ma il tema cileno continua. Proprio ora sono al montaggio di un altro film sull’insurrezione popolare, iniziato un anno fa con la grande esplosione a Santiago con duecentomila persone in strada. Sto costruendo la rivolta popolare che termina con la Costituzione. Ho già filmato il cinquanta per cento e ora in due mesi o poco più torniamo a Santiago per filmare la conclusione della commissione che sta cambiando la Costituzione. È un lavoro lungo ed entusiasmante.