Quando nell’ottobre 2014 usciva Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier di Patrick Modiano, nessuno avrebbe immaginato che di lì a pochissimi giorni all’autore sarebbe stato conferito il Premio Nobel per la letteratura. Tanto più che l’ambito premio era stato attribuito solo qualche anno prima a un altro scrittore francese, Le Clézio. La designazione, dunque, coglieva di sorpresa molti, non escluso lo stesso Modiano, personaggio da sempre schivo, appartato e contraddistinto da una leggendaria riservatezza e che nel commentare la notizia ha detto di aver avuto l’impressione che il Nobel fosse andato a un altro, che aveva il suo stesso nome.

Il libro che gli accademici non avevano potuto leggere è ora disponibile nella elegante traduzione di Irene Babboni (Perché tu non ti perda nel quartiere, Einaudi «Supercoralli», pp. 123, euro 17,00).

Jean Daragane, anziano scrittore che vive oramai isolato dal mondo, riceve la telefonata di uno sconosciuto che si offre di restituirgli un taccuino smarrito. L’uomo si presenta accompagnato da una giovane donna dall’aspetto equivoco. Quell’incontro mette in moto una serie di appuntamenti e i due si insinuano nella solitudine dello scrittore, che grazie a un nome che compare nel taccuino e che molto interessa ai due viene progressivamente riportato a un passato che egli aveva volontariamente reciso dalla propria coscienza. I ricordi pian piano si riaffacciano alla memoria dello scrittore, dapprima in modo frammentario e incongruo, poi in forma più coerente e drammatica. Tutto converge verso la rievocazione di un episodio rimosso della sua infanzia, un’infanzia difficile e che per molti versi ripete quella dello stesso Modiano, affidato dai genitori ad amici via via diversi, e costretto a un’esistenza precaria e randagia, segnata da legami molto problematici tanto con il padre, ebreo collaborazionista durante l’occupazione nazista di Parigi, quanto con la madre, distante e indifferente al bambino.

È evidente che si tratta di un romanzo perfettamente in linea con le opere precedenti dell’autore: l’ambientazione nella Parigi occupata, un’aria fitta di mistero, un protagonista dall’identità incerta, un uomo sinistro che irrompe nella sua vita, l’investigazione del passato, una donna del presente dal profilo indecifrabile, una donna del passato sfuggente. Questa prova più recente tuttavia presenta un tratto di maggiore limpidezza nella costruzione della struttura, anche se è evidente che chiamare in causa la limpidezza a proposito di Modiano può apparire un vistoso controsenso. Infatti il tratto più tipico dell’autore è appunto quel carattere ‘modianesque’, derivante dal fatto che persone, luoghi e tempi risultano marcati da una insanabile indecidibilità e immersi in una sorta di liquido opaco che ne sfuma i contorni, e con i contorni le dimensioni, il peso, le volontà, le intenzioni. Con totale fedeltà a una scena archetipica, il narratore presenta i tratti del sopravvissuto che torna a interrogare il passato per rendere giustizia a ciò che è stato inghiottito dal tempo e che tuttavia continua a incombere sui destini dei viventi.

Dunque questa storia non presenta elementi di sostanziale novità rispetto alle opere precedenti. Qui però più che altrove il set narrativo ricalca la struttura di una patologia.

I personaggi di Modiano cambiano nome e casa con estrema facilità e non di rado per cause inesplicabili. Essi vivono sotto una pressione continua che li schiaccia e impedisce ogni forma di socialità. Nell’esistenza di Jean, Chantal e di tutti gli altri personaggi che abbiamo conosciuto nei testi di Modiano, non c’è traccia di relazioni sociali o affettive che non siano segnate dall’angoscia o da una inscalfibile indifferenza. Qualcosa di analogo alla ‘divina indifferenza’ che marcava la Dora Markus montaliana, la donna in fuga perenne da un paese e da un passato irrimediabilmente devastati. Nei manuali di psichiatria tale condizione viene definita ‘sindrome di abbandono’ e disturbo della personalità, ma nei romanzi di Modiano la condizione di abbandono vissuta più o meno consapevolmente dal bambino, segna anche gli altri personaggi, tutti di fatto gettati sulla scena dell’esistenza dopo essere stati allontanati traumaticamente da un luogo protetto. Gettati senza un perché in uno spazio estraneo, questi personaggi senza identità restano condannati a un’esistenza che non riconoscono come propria e affondano in una fatale catatonia.

Noi, scrive Remo Bodei, «non siamo una identità chiusa, siamo un nodo di relazioni, quanto più conosciamo queste relazioni tanto più siamo noi stessi».

I filosofi indicano la data di nascita del concetto di identità nel Settecento. Locke e Hume sono tra i primi a sottoporre ad analisi razionale il principium individuationis che ha preso il posto di quel tutto unito che era l’anima. Ma l’identità non è una substantia quanto un processo, non un dono ma una conquista, difficile e per di più precaria. E la storia, la letteratura e l’arte della modernità non mancano di fornirne abbondanti esempi. Ha un’identità chi ha la capacità di avere coscienza di rimanere se stesso nonostante il passare del tempo e i mutamenti portati dall’esperienza. Esattamente ciò che manca ai personaggi di Modiano.

Jean scrive il proprio romanzo con il preciso intento di lanciare un «segnale luminoso» a una donna, alla quale da bambino era stato affidato dalla madre, quella che gli aveva messo in tasca un biglietto con l’indirizzo affinché il bambino non si perdesse nel quartiere. Ma quando si trova davanti a lei non è neppure in grado di formulare la domanda fondamentale e lei, ugualmente sfuggente e smarrita, non è in condizione di capire il perché di quel tardivo incontro, con un uomo che aveva conosciuto bambino e non aveva più rivisto. In questo faccia a faccia senza esito sta il senso del dramma e l’impossibilità dell’identità e dunque del riconoscimento. Nella commedia antica i due fratelli separati da bambini, posti uno di fronte all’altro, riconoscono l’altro e insieme se stessi, perché non possono davvero conoscere se stessi fino a che non si imbattono nella loro stessa immagine duplicata. Qui invece intorno alle fioche luci delle lampade, che si accendono e si spengono sempre per mandare un segnale o per simulare o dissimulare una presenza, permane una spessa coltre di ombre, che nessuna lampada può penetrare.

Non c’è lettore che non faccia notare quanto densa sia la pagina di Modiano. Ogni capitolo è un tableau vivant, in cui la scena presenta vivi e immobili personaggi intenti a fissarsi l’un l’altro, o totalmente assorti nella contemplazione, di una vetrata che dà su un boulevard come di un documento che si sottrae ostinatamente a un’interpretazione definitiva. Persa ormai per sempre la chiave di cifratura, ogni scena del presente o del passato presenta un enigma irrecuperabile. La ragione di questo dissesto sta nella assoluta discontinuità spazio-temporale: l’io non è un io, non somiglia a se stesso più di quanto somigli a un altro, forse opposto o odiato, la città le sue strade le case non somigliano a quelle di cui la memoria riporta frammenti incongrui, e dunque non c’è consistenza né per quanto riguarda il presente né per il passato. L’unico elemento potenzialmente in grado di operare il riconoscimento, di sostenere l’identità e dunque di garantire una possibile continuità tra i frammenti irrelati o è assente o è morto. E quei frammenti galleggiano disancorati sul pelo di un’acqua torbida e profonda.

Ma Modiano è Modiano perché di tutto questo fa una potente macchina narrativa in cui si alternano con sapienza pensieri slegati e frustranti, scarne parole e silenzi smarriti e profondissimi. E quello spessore che tanto colpisce impone un’attenzione concentratissima, poiché egli dispone con esattezza parole e sottrazione di parole, e tutto il non detto preme e pesa sulla pagina tanto da richiedere una parcellizzazione della lettura. Non si può leggere Modiano ‘di fretta’, perché le sue 123 pagine aprono continuamente sull’implicito, sempre preponderante rispetto all’esplicito. La storia di Jean è anche allegoria di una nazione e di una civiltà che ha smarrito qualcosa di sé. Dunque ogni elemento ha un peso specifico particolare. Un taccuino, per esempio, non è solo un oggetto di uso quotidiano, che può essere smarrito (o rubato) e ritrovato, ma diventa la figura che in sé sussume i tratti e il ruolo di una miriade di oggetti materiali e psichici: la cattura di un nome o di un numero, l’intenzione di conservare nonostante i traumi dell’esperienza e nonostante l’incombenza dell’oblio, l’accidentalità e la volontà della memoria, la necessità di lasciarsi alle spalle, di allontanare, di chiudere una parte di sé in un punto dello spazio che si può rendere a lungo o forse per sempre inaccessibile a sé e agli altri.