I due volumi che Bompiani ha dedicato alle opere in versi e in prosa di Tonino Guerra vengono a delineare nella sua totalità l’attività letteraria di uno dei più significativi poeti in dialetto del nostro tempo, che del resto è stato anche un ottimo romanziere e prosatore in italiano e uno dei massimi sceneggiatori cinematografici internazionali, avendo lavorato con numerosissimi insigni registi italiani e stranieri, tra i quali nomino solo, per sinteticità ed evidenza, De Sica, Antonioni, Fellini, Rosi, Tarkovskji ed Anghelopoulos. Inseriti nei «Classici Bompiani» e opportunamente introdotti e curati da Luca Cesari (cui si aggiunge la puntuale cronologia di Rita Giannini), gli scritti di Guerra – L’infanzia del mondo Opere 1946-2012, tomi I e II, pp. CCXXCV+ 2890, € 95,00 – costituiscono un vero e proprio monumento all’attività dello scrittore, spesso affidata a plaquettes raffinate ma ormai quasi introvabili. Per tale ragione questa edizione si presenta, oltre che meritoria, anche come riparatoria.
Gli esordî di Guerra sono però essenzialmente poetici, e alla poesia forse ha dato il meglio del suo talento polimorfo e spiccatamente narrativo, cui l’humus contadino (è nato a Santarcangelo di Romagna nel 1920) ha conferito un abbrivio terragno pieno di umanità e calore per gli ultimi, unito a una sapienza psicologica intuitiva e fulminante quale è raro trovare nei nostri scrittori più attuali. Superando gli scogli di un dialetto difficile e aspro (il romagnolo), egli è riuscito fin da subito a inserirsi nella poesia moderna contemporanea senza complessi di inferiorità, anzi preparando il terreno per tutta una schiera di poeti di notevole caratura suoi conterranei e più o meno suoi coetanei, in cui primeggiano i nomi di Nino Pedretti e di Raffaele Baldini (ma altri ancora si potrebbero aggiungere).

Spirito epigrammatico
Nata nel Lager tedesco di Troisdorf, trasmessa oralmente tra altri internati, la poesia di Guerra ha qualcosa, nella sua origine, di mitico e favoloso, testimoniata com’è da un compagno di prigionia, Gioacchino Strocchi, che ne coglie subito la valenza paesana e familiare, dietro il movente primario nostalgico che in genere sta sempre alla base di tutte le esperienze, anche le più vitali, della poesia in dialetto. Si tratta di liriche brevi, caratterizzate da spirito epigrammatico, accurate da un punto di vista metrico-ritmico, non prive anche di valenze simboliche, tanto da apparire subito frutti già rifiniti di un montalismo non pedissequo ma risillabato in un’accezione linguisticamente minoritaria, e perciò stringentemente legata a un contesto umano e naturalistico quasi personalizzato. Tale poesia ha trovato presto i suoi estimatori e interpreti, da Carlo Bo a Pier Paolo Pasolini, fino a Gianfranco Contini che ha firmato un memorabile ‘Excursus’ continuo su Tonino Guerra, apparso come prefazione a I bu (I buoi) (Rizzoli, 1972), che raccoglieva e riordinava, con la traduzione – invero un pochino troppo libera – di Roberto Roversi, tutta la prima produzione poetica di Guerra.
Quello che Contini individua nel dialetto di Guerra è «qualcosa di barbarico e irsutamente inedito»: il portato di una preistoria interiore, fotografato a uno stadio iniziale ed evolutivo, avendo poi avuto l’autore davanti a sé (è morto nel 2012) una lunga vita creativa che lo ha spinto a sperimentare (oltre agli iniziali romanzi) anche forme prosastiche (anzi prosimetriche, frammiste dunque di vera e propria poesia) assai interessanti (spesso brevi e aforistiche, talora fiabesche, talora vagamente proverbiali), nonché piccoli poemi in prosa, pièces teatrali, resoconti poetici di viaggi, ecc.
A una prima fase metrica, in cui il dettato poetico si esaurisce in una serie di componimenti brevi, e l’io lirico emerge a intermittenza, ma anche spesso si sperimenta certo impressionismo aneddotico che accompagna alcune figurazioni di derelitti (La cèva, E’ casòun di purétt, E’ bagn di purétt), alcune divagazioni favolistiche (E’ bagaròz, E’ gatìn balòsch, I du bagaròzz), certo intimismo sentimentale di poveri amanti (Sòura un cafelàt:«Andémma t’un cafè dla póra zénta / in dò ch’ i zènd i furminènt te méur / a fè do ciàcri sòura un cafelàt, / a déi ch’ l’è chèld, ch’ l’è bon, che fa par néun» «Entriamo in un caffè di povera gente / dove strisciano i fiammiferi sul muro / a prendere un caffellatte, a chiacchierare, a dire / che lì è caldo, che si sta bene, che ci piace»), succede una sequenza di poemetti, a impianto decisamente narrativo. Si tratta di un’evoluzione, a partire da E mèl (Il miele) del 1981, che segna una svolta, se non irreversibile, certo dirimente, che ha il sapore di un passaggio marcato, di tipo pascoliano, verso il racconto ciclico in poesia, del tutto sganciato però da asservimenti metrici. Si tratta di una riappropriazione del dialetto a uno stato puro, quasi di un’oralità di fondo, continua, non più soggetta alle complicazioni e costrizioni dello schema formale.
La vicenda narrata è molto semplice. Un vecchio ritorna al suo paese d’origine, per ricongiungersi con il fratello, altro vecchio e in realtà un suo doppio, e vivere (e morire) con lui. Il paese che li accoglie è un paese quasi del tutto abbandonato, abitato solo da vecchi, dove si vive solo di ricordi, in un’aura di morti viventi e di passioni spente, cui il dialetto conferisce, come lingua in estinzione, la patina di un passato non più recuperabile e l’emblema del miele, come dolcezza della vita, apparirà anch’esso, in una sorta di giudizio universale finale, un tremendo inganno: «Mo e’ vén e’ dè che da la porta de zil / e’ casca zò una vòusa dróinta la pòrbia. / La cmanda che vénga fura l’òm / che l’à inventé la ròba d’ogni sorta: / la róda, i arlózz, i nómar / e al bandìri par la strèda. / Alòura u s’èlza Adamo e a tèsta èlta / e’ va sòtta ch’la Luce Granda / par dói che e’ mél ch’ u s’éva dè / l’èra in zóima a una spèda» («Ma verrà il giorno che dalla porta del cielo / cadrà giù una voce dentro la polvere. / Comanderà che venga fuori l’uomo / che ha inventato tutto quanto: la ruota, gli orologi, i numeri, / e le bandiere per le strade: / Allora si alzerà Adamo e a testa alta / andrà sotto quella Luce Grande / per dire che il miele che ci ha dato / era in cima a una spada»).

Realismo simbolico e assurdo
Gli altri poemetti che seguono (La Capana, 1985; E’ viàz, 1986; L’órt ad Liséo,1989: ne cito solo alcuni tra i più cospicui) sono altrettante storie concluse, nelle quali il realismo simbolico che le contrassegna si mischia con l’assurdo della vita e svela la contraddizione che nella vita è sempre latente. Si tratta di personaggi dai contorni sfumati ma non imprecisi, dall’esistenza singolare entro una cornice contadina che sembra fermare il tempo in una stagione che, pur dentro la storia, è comunque fissa e come eterna. Omero vive solo nella capanna, Isolina va a fargli i lavori in casa; egli la desidera, lei lo respinge; quando sembra cedergli è lui che fugge (La capanna). Due sposi molto vecchi (Rico e Zaira) non hanno mai visto il mare; partendo, in viaggio di nozze tardivo, dal loro borgo e seguendo a piedi il corso del Marecchia si spingono fino all’Adriatico; ma, raggiunta la spiaggia, quasi non vedono il mare avvolto com’è da una fitta nebbia (Il viaggio). Eliseo combatte una lotta disperata con la talpa che gli devasta l’orto, ragione della sua vita; riesce a ucciderla con lo schioppo: ma è solo un sogno (L’orto di Eliseo).
Direi che in tutte le scritture di Guerra c’è sempre questa acuta, patetica percezione dell’incompiuto o non raggiunto, del desiderio che si spunta sulla cote della realtà, contraddicendo le attese, della vita che sfiora sempre il limite dell’assurdo. Solo con la ripresa finale del mito di Ulisse (Odiséa. Viàz de poeta sa Ulisse, 2007) Guerra pare portare a pacificazione, attraverso una personale riscrittura in dialetto e in lingua dell’Odissea, il suo tragitto d’uomo e le contraddizioni del mondo, identificandosi nel primo vagabondo della storia che si ricompone in seno alla sua Penelope: «Apéna i s stàca cumóss / par dóis un sach ad ròbi bèli / al bòcchi a l tremèvva / e basta» («Quando si staccano commossi / per dirsi tante cose belle / le bocche tremano / e basta»).
Parallelamente a questa sua attività poetica in dialetto Guerra svolge anche un’intensa attività romanzesca che poi pian piano vira sempre più verso una prosa lirica, breve e frammentata che non ha niente da invidiare però alla sostanza primaria della sua ispirazione: una lancinante, istintiva penetrazione dell’essenza dell’esistenza e delle cose che si agitano attorno alla vita di un uomo, quale è raro trovare anche negli scrittori più scaltriti. Solo di fronte alla lingua, anzi alle sue due lingue (quella demotica e quella comunitaria) egli decide (contrariamente a certe tendenze anche novecentesche) di non confondere mai i registri, di evitare mescidanze, quasi che i due mondi dovessero restare distinti, non per loro inconciliabilità ma per ragioni di evidenza e soggettività dei diversi statuti. E così anche l’italiano di Guerra, adibito ai romanzi e alle prose libere e fantastiche, attinge a un suo grado di nobiltà, proprio in ragione di una sua propria semplicità, limpidità e precisione quasi calviniana.
Nei primi romanzi apparsi per Einaudi, La storia di Fortunato (1952) e Dopo i leoni (’56), Guerra declina un suo nitido neorelismo non vernacolare, ma venato da istanze populistiche, in cui l’eco del recente conflitto mondiale è ancora tutto presente, anche se il passaggio dalla rovina bellica alla ricostruzione è punteggiato da un’ansia di ricomposizione del sentimento e della tenerezza del vivere. Dopo un passaggio a una narrativa più sperimentale e intellettualistica, in linea con talune esperienze filmiche dell’epoca, cui egli si presta come collaboratore sempre più determinante, Guerra sembra traghettare infine – come s’è detto – verso una prosa di frammenti di forte impatto poetico, in cui sempre più predominante par essere la chiave surreale e fantastica, come via interpretativa del mistero del mondo. Così alcuni tra i suoi libri più belli si configurano come sequenze di microstorie, in cui la brevitas fulminante del racconto va a cogliere sempre l’imprevisto, il controsenso, l’inceppatura paradossale del reale: vedi, ad esempio, Il polverone. Storie per una notte quieta (1978) o Il vecchio con un piede in Oriente (’90).
Un’ultima nota. Il titolo della raccolta complessiva degli scritti di Guerra, L’infanzia del mondo, è cavato da un proposito presente nel poema in prosa Una foglia contro i fulmini (2006): «Non sto cercando soltanto la mia infanzia, ma addirittura l’infanzia del mondo». Titolo congruente ancorché redazionale, perché in Guerra la ricerca dell’infanzia è proprio emblematicamente la ricerca dell’infanzia del mondo; e la corsa all’indietro verso l’origine della propria storia (verso il paese perduto) si rispecchia – nella seconda metà della vita – nell’ambiente primordiale di un Oriente antropologicamente consimile, che gli è venuto incontro nella figura della moglie russa, Lora Kreindlina, e nei paesi che un tempo costituivano la costellazione sovietica, nei quali ha trovato nuova linfa e ispirazione per le sue ultime appassionate scritture di viaggio e di memoria.