«Nei due anni che restano darò tutto me stesso affinché a ogni persona sia garantito un modo degno di vivere», ha dichiarato il presidente Alberto Fernández alla chiusura della campagna del Frente de Todos nella provincia di Buenos Aires.

CHE LO STESSO SFORZO riguarderà anche i mapuche esistono però forti dubbi. E il primo banco di prova è offerto dall’approvazione o meno della proroga della legge 26.160 di emergenza territoriale indigena, che sospenderebbe per altri 4 anni gli sgomberi delle comunità indigene. Una corsa contro il tempo: se entro il 23 novembre la Camera dei deputati non la voterà, i territori ancestrali rimarranno in completa balia degli invasori.
Approvata nel 2006 durante la presidenza di Néstor Kirchner, e già prorogata tre volte, la legge proibisce lo sfratto forzato di comunità indigene fin quando non verranno ultimate le ricerche sul loro effettivo diritto all’occupazione e alla proprietà dei territori rivendicati. Una legge, peraltro, che avrebbe dovuto segnare l’inizio della soluzione dei tanti conflitti provocati dalla «criminalizzazione dei popoli indigeni in lotta per la difesa dei propri diritti», come evidenziano varie organizzazioni di diritti umani, ma che invece è rimasta largamente inattuata: alla fine del 2019, il rilevamento tecnico, giuridico e catastale delle loro terre era stato avviato solo per 745 delle circa 1.760 comunità originarie.
Un passo è già stato compiuto il 28 ottobre con l’approvazione della proroga del provvedimento da parte del Senato, avvenuta in mezzo alle crescenti tensioni scatenate da alcuni incendi appiccati in ottobre nelle città di El Bolsón e Bariloche nel Río Negro – territorio caro al magnate Joe Lewis – e immediatamente attribuiti ai mapuche, malgrado l’assenza di rivendicazioni da parte di questi ultimi e anzi la loro esplicita richiesta a fare chiarezza sugli attacchi.

QUEL CHE È CERTO è che gli incendi hanno offerto ai principali mezzi di comunicazione un’occasione d’oro per alimentare un’aggressiva campagna contro il «terrorismo mapuche» – o “mapuchismo”, come ha titolato uno dei tanti articoli sui conflitti territoriali nel sud dell’Argentina -, non senza evocare il «pericolo di perdere la Patagonia». Musica celestiale per le orecchie dei settori imprenditoriali, i quali si sfregano le mani in attesa di piombare come avvoltoi sui territori in disputa.

Ad appoggiare tale campagna sono peraltro esponenti di ogni segno politico, che si tratti di Patricia Bullrich, la ministra della Sicurezza di Macri, di Sergio Berni, il ministro della Sicurezza della provincia di Buenos Aires in mano al Frente de Todos, o della governatrice del Río Negro Arabela Carreras. È stata proprio quest’ultima, peraltro, a dare l’ordine alla polizia, l’1 ottobre, di sgomberare con la forza la comunità mapuche Quequemtrew, impegnata in un processo di recupero delle sue terre ancestrali nella zona di Cuesta del Ternero, e di tenerla isolata impedendo persino l’arrivo degli alimenti.
Ed è stata sempre lei a «esigere» dal governo Fernández l’invio della gendarmeria nel Río Negro – l’unica provincia in cui non è stato assegnato un solo titolo di proprietà comunitaria – prendendo a pretesto proprio il sospetto attacco incendiario alla sede del Club Andino Piltriquitrón di El Bolsón, avvenuto in una zona ultra militarizzata senza che, guarda caso, nessuno vedesse nulla.

RICHIESTA, quella di Carreras, che il governo ha infine accolto, per quanto con alcuni paletti, violando la promessa fatta dal ministro della Sicurezza Aníbal Fernández a una delegazione mapuche di non mandare gendarmi in Patagonia.