Chiese ad elevata parità di genere. Sono quella valdese e metodista – la principale delle Chiese cristiane non cattoliche presenti in Italia – e nel complesso quelle sorte dalla Riforma protestante, nelle quali le donne ricoprono ruoli e funzioni identiche a quelle degli uomini. Ne parliamo con Letizia Tomassone, pastora valdese a Firenze e docente di Studi femministi e di genere alla Facoltà valdese di teologia di Roma, in questi giorni impegnata nei lavori del Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi a Torre Pellice.
«In effetti la presenza di donne “ordinate”, pastore e diacone ma talora anche vescove e presidenti di Chiese nazionali, è molto estesa e visibile nelle Chiese della Riforma», spiega Tomassone. «Nella Chiesa valdese e metodista si può contare poco meno del 40 per cento di donne ministro. Tuttavia, seppure ricoprendo la stessa funzione, donne e uomini non sono “uguali”: si cerca di dare spazio alla “differenza” nello svolgimento del ministero senza che questo crei discriminazione».

In altre Chiese cristiane, penso alla cattolica e alle Chiese ortodosse, questa parità non esiste. Eppure sono tutte ugualmente fondate sulla Bibbia e su Cristo. Come è possibile?
«La concezione del ministero nelle Chiese della Riforma non è sacrale, non si tratta di un sacerdozio, né il ministro deve svolgere una mediazione maschile – in quanto Cristo era un maschio – o paterna – in rappresentanza del Dio padre – verso la comunità. I ministri di culto sono parte della comunità dei credenti e del ministero che appartiene a tutte e a tutti e svolgono una funzione al servizio della comunità e centrata intorno alla predicazione della Parola.

Quello del posto delle donne nelle Chiese è un elemento di divisione con la Chiesa cattolica e con le altre Chiese. Potrà essere superato?
La questione si pone a più livelli. La Chiesa cattolica ci riconosce come pastore delle nostre Chiese e condivide momenti di confronto teologico e biblico in cui siano coinvolte pastore protestanti. Tuttavia, non aprendo con altrettanta fiducia alle donne nelle proprie fila, il dialogo è sempre difficile e diseguale. Più complicato ancora con i vari Patriarcati ortodossi o con buona parte delle Chiese pentecostali che non accettano il ministero femminile, e dunque non accolgono le pastore protestanti in occasione di incontri ecumenici. Il cammino è ancora lungo ma, per il forte impegno delle teologhe cattoliche nella propria Chiesa, ci saranno sicuramente degli sviluppi positivi».

Parliamo di donne e teologia. Nella ricerca biblica e teologica, nelle facoltà, che spazio assumono le donne?
Io faccio parte del Coordinamento delle teologhe italiane che raccoglie molte teologhe cattoliche e protestanti che fanno ricerca e insegnano anche nelle Facoltà pontificie. La Facoltà valdese di Teologia ha un corso curricolare sulle teologie femministe.

Quindi anche in questo ambito donne e uomini hanno un ruolo paritario?
No. Per ora la presenza di donne teologhe e docenti è marginale, seppure significativa per la qualità e quantità di pubblicazioni.

Quali filoni di genere studia e approfondisce la ricerca teologica?
I temi trattati seguono le tracce delle teologie femministe già sviluppate in altri Paesi, a livello ecumenico quindi, perché i percorsi di donne protestanti e cattoliche nel mondo occidentale sono intrecciati: una “ermeneutica del sospetto”, che rintraccia presenza femminile nonostante silenzi e reticenze dei testi biblici; l’esperienza di vita delle donne che diventa lente per comprendere i testi e la fede; la resistenza contro ogni riduzione al silenzio, contro la violenza e il patriarcato così a lungo legittimato dalla religione cristiana. Il lavoro è prima di tutto biblico, ma c’è un gran fermento di ricerca anche sulla storia delle donne e sulle forme di Chiesa. Inoltre c’è una riflessione comune sulle identità femminili postcoloniali, con molte donne del mondo protestante africano o cattolico dell’America latina. Questo ci aiuta a fare i conti con la nostra religione anche nei termini di una critica al suo retaggio di colonialismo di donne bianche e occidentali.

Che tipo di lavoro portano avanti le reti ecumeniche ed interreligiose di donne?
In Italia ci sono reti interreligiose con donne ebree e musulmane che conducono battaglie per la giustizia e la pace insieme a noi. Ascoltarci reciprocamente ci aiuta ogni volta a scoprire insieme la grande ricchezza che ogni tradizione porta con sé e ci rafforza per resistere alle oppressioni religiose, alle interpretazioni restrittive degli scritti fondativi. Esistono poi reti internazionali di donne impegnate per fare delle fedi strumenti di pace e di riconciliazione, come per esempio le teologie di donne nell’Islam che perorano una giustizia di genere nella Jihad.

Negli ultimi anni le Chiese valdesi e metodiste si sono impegnate sulla questione della violenza di genere, impiegando anche parte dei fondi dell’otto per mille. Quali programmi sono stati portati avanti? Perché è importante che le Chiese e le religioni si impegnino su questo fronte?
In marzo sono state consegnate alla presidente della Camera, Laura Boldrini, più di 5mila firme di donne e di uomini che si impegnano contro la violenza di genere. Le Chiese protestanti sono sempre state attente ai diritti delle persone, e la battaglia sui temi della violenza contro le donne riguarda i diritti umani. È importante che in questo cammino siano coinvolti gli uomini, in una presa di coscienza della propria identità maschile, che deve superare gli stereotipi dell’aggressività e recuperare il senso della reciprocità nella relazione e della capacità di tenerezza. Si lavora a molti livelli, con proposte di letture bibliche e un calendario di “sedici giorni contro la violenza”, un’iniziativa mondiale adottata dalle Chiese protestanti italiane – ogni anno dal 25 novembre al 10 dicembre –, con sportelli di aiuto e qualche casa rifugio per donne in difficoltà, promuovendo dibattiti e pubblicazioni che aiutino a superare la cultura cristiana maschilista e patriarcale.