La chiave alla poesia russa del primo Novecento è il peso della voce. La grana, la pasta, la fibra sonora del verso sono già tutto, sono anche ritmo, semantica, invenzione. La poesia è la sua realizzazione fisica, il suo suono, sempre e esclusivamente performato. Prima di scriverli, Mandel’štam teneva sulle labbra per settimane i versi, Chlebnikov inseguiva il senso universale di ogni fonema. Tradurre il Pasternak all’apice del fulgore creativo, il poeta di Mia sorella, la vita (Sestra moja – žizn’), testo iconico del modernismo russo e europeo, sembrerebbe impresa autoreferenziale o meramente illustrativa. C’erano quindici testi di questa raccolta nella leggendaria antologia pasternakiana di Ripellino, nitidi, ma fotografici e laconici, come voleva quel grande poeta che della voce altrui si faceva specchio quasi letterale. E c’è una dimenticabile (e fuori commercio) versione completa di una ventina di anni fa.

Ora Paola Ferretti ha accettato con talento e orgoglio la sfida, reinventando per intero il corpo della parola, da cui scaturisce mirabilmente il ritmo, con tanta parte della ridda polisemica e, là dove possibile, frazioni di un tessuto allitterativo che nell’originale è eversivamente onnicomprensivo: ne è nato un prezioso libro italiano – Mia sorella la vita (Passigli, pp. 205, € 19,50) – dotato di una significativa personalità e di una dignità poetica autonoma.

La storia della raccolta
Scritto di getto nell’estate del 1917, poi lasciato lungamente decantare e pubblicato solo nel 1922, Mia sorella, la vita (subito seguito da Temi e variazioni, l’altro capolavoro poetico di Pasternak, anch’esso recentemente tradotto da Ferretti) è insieme un prodigio di concentrazione espressiva e immediatezza, interamente inscritto tra due rivoluzioni, nell’unica stagione di democrazia che la Russia abbia mai conosciuto, in un tripudio incoercibile di sensi e sentimenti. Allo stesso tempo, tuttavia, è un libro lungamente meditato, strutturato con meticolosa cura, modello forse esemplare di come una raccolta possa essere molto di più delle singole liriche che la compongono: per ambientazione, stratificazioni, percorsi.

Chiave tematica esclusiva è l’amore infelice e, pare proprio, mai corrisposto per Elena Vinograd, anche se brani erotici tanto sottilmente dissimulati quanto prorompenti e carnali ci convincono inequivocabilmente del contrario. Andare a trovarla, in treno, viaggiando un giorno e più, in desolate cittadine perse nella steppa tra Tambov e Saratov è una marca spaziale inconfondibile che irradia tutto il libro, tessendolo dei panorami che traversa, in simbiosi verbale strettissima con una natura travalicante, severa e fatata, ma di più, partecipe, come un reticolo grafico, della trama stessa. Il testo istoriato, trapunto di codici visuali, in una miriade di immagini che nascono dalla leggendaria lirica «l’orario della tratta di Kamyšin, ti appaia grandioso più delle Sacre Scritture». I toponimi sono altrettanti personaggi, equivoci, vibranti, torvi: uno fra tutti Muckap, che assomma (col nesso palatale-velare) ogni variante del lessema russo per ‘tormento’, ibridandolo anche con le mosche.

Altra facies altamente individualizzante è l’articolazione in sezioni dotate ognuna di reale anima, carattere, che esaltano in una gamma di varianti i microtemi (giardino, temporale, steppa, prospezione filosofica, echi remoti della rivoluzione) e fanno percepire dinamiche di intreccio dello spessore di un romanzo in versi. Mai una lirica è a sé stante e ogni immagine è sempre specchio non solo del referente, ma anche di altre angolature, espansioni dello stesso volo di fantasia, per cui l’intero libro è percorribile di rimando in rimando secondo nessi che con certosina attenzione sono ricostruiti nella maggioranza dei casi nella versione italiana.

L’esplosione dell’io sovrano del poeta riecheggia fino al centro dell’universo, rantolo di micro-titano novecentesco che non riesce a capacitarsi di come non abbia accesso al cuore di lei. Senza dimenticarne per un attimo la fisicità, l’erba che le si insinua su per i polpacci, Pasternak sposta allora la contesa su un piano di forsennata ontologia interstiziale, al quale agiscono paritariamente tre attori: la natura in subbuglio, parossismo, snocciolante prodigi; i corpi dell’io lirico e della sua sognata amante, trasposti in una patria ipnotica dove l’esuberanza dei sensi tutto avvolge e travalica; enti metafisici personificati e quotidianizzati (la vita, l’anima, l’estate, la Via Lattea) che si animano, interagiscono, stanno al gioco con la docilità di animali domestici: tutti e tre i piani sono sempre congiunti, congiuntamente evocati, scissi in antifrasi compresenti, e tutto questo insieme, con la sua semantica debordante e fosforescente, è in ogni caso giustificato, motivato, a prova di logica, a sancire una densità prodigiosa della parola poetica e il livello più alto e maturo dell’avanguardia.

Rime perdute
I mezzi espressivi attivati sono conseguentemente radicali. Il primo essenziale procedimento è l’accumulo – di suono, senso, emozione – e le quartine – salvo poche eccezioni tra le cinque e le sette in ogni lirica – incalzano senza respiro ciascuna la successiva, procedendo per groppi, scossoni, abbacinando il lettore con inventiva inesauribile, che da un nucleo logico ne sciorina un’espansione dopo l’altra, senza far cessare la tensione, spesso in un’infilzata di interrogative indirette, con un ritmo che stringe al cuore. A incardinare tutto, in russo, la rima: primigenia, ustionante, funambolica quanto mai gratuita, tante singole pillole d’infinità poetica; in italiano, com’è giusto che sia, non ne resta nulla, ma certo questa è la perdita più grande.

Eppure il segreto dell’incantesimo è ancora un altro. Al centro di ogni lirica o nucleo di liriche c’è una concentrazione di tropi squassante ma – e qui sta l’assoluta novità – disposta per linee orizzontali, in totale interdipendenza: tutte le immagini sono complementari e complanari, nascono dallo stesso ambito semantico, o logico, o spaziale, e quindi appaiono generate l’una dall’altra; il principio metonimico è esteso in iperbole e la fruizione diventa uno spogliare stupefatto, una margherita fatta ora di punture, pungiglioni, grano battuto, ombre calate dalla luna come clave («Estate»), ora di tessuti prensili («A casa»), quando il sole in canicola si toglie il turbante, che è poi la pezza tenuta a mollo con cui si avvoltola l’oro sulle cupole, le membrane del telefono vibrano, le tende sono slabbrate come massoni e nella successiva («A Elena») la federa è intrisa del sonno di un bambino, la piega delle labbra insegue quella delle palpebre chiuse, che sono come un grembiule morto. E così via, ad libitum.

Sintassi reimpostata
Merito ulteriore di una tanto tangibile cortina tropica è sopravvivere in molta parte alla versione. Il contributo essenziale della traduttrice, che introduce anche il volume con un’illuminante e raffinata prefazione, sta nell’aver saputo reimpostare la sintassi su basi completamente nuove e in una scelta del lessico in tutto consona alla strategia autoriale, dove il serpente può diventare crotalo, la folla un capannello e una quieta polverina un impalpabile medicamento: la fedeltà, insomma, rinuncia alla lettera, purché senso e ritmo scorrano in compattezza e sintonia. E la magia perduri anche in italiano, la parola non perda peso.