È possibile azzardare un’analisi di quell’epoca breve e felice passata alla storia come «il Sessantotto» che non sia già stata messa giù nero su bianco almeno una decina di volte? Probabilmente no. Tra celebrazioni, amarcord, requisitorie e arringhe tutto quello che poteva esser detto sull’anno della rivolta, e forse anche qualcosa in più, è già stato detto. In compenso è possibile sostanziare quelle analisi e quelle ricostruzioni, dotarle di carne e sangue, emozioni e sentimenti, dubbi, esitazioni, scelte. Da questo punto vista, il saldo è invece in rosso: pochi ci hanno provato, nessuno o quasi ci è riuscito.

Con Per strada è la felicità (Ponte alle Grazie, pp. 244, euro 16.00) Ritanna Armeni centra invece l’obiettivo. Restituisce realtà e vita a quel momento e a quella storia sfuggendo alla doppia trappola di una narrazione troppo centrata sulla biografia dei protagonisti, che ridurrebbe la vicenda collettiva a semplice contesto, oppure all’epica combattente, fatta di conflitti gloriosi ma povera di sensazioni, quindi di verità.

È UN ROMANZO, non l’ennesimo memoir, anche se l’autrice ha prestato senza dubbio molti tratti e molte esperienze dirette a Rosa, la protagonista, il cui nome è un richiamo esplicito a Rosa Luxemburg, quasi una coprotagonista del romanzo. L’omonima ragazza del ’68 la studia, la fa oggetto della sua tesi di laurea, ci si confronta e a volte ci si scontra. La rende un modello non solo per la visione non autoritaria del comunismo, che sedusse molti all’epoca, ma per la capacità di estasiarsi di fronte alla semplice bellezza della vita, per la passione con cui visse un amore travagliato, perché, come scopre la protagonista grazie alle Lettere a Leo Jogisches, restava donna e persona oltre che intellettuale e rivoluzionaria.

La trama copre l’arco di due anni, dall’inverno 1968 all’inverno 1970: il biennio rosso. L’autrice condensa nella sua protagonista l’esperienza di molte donne di quella generazione e allo stesso modo racchiude nel biennio sviluppi e tensioni che, pur nate allora, sarebbero esplose e dilagate qualche anno più tardi, con lo strappo del femminismo.

Rosa viene dalla provincia. È una studentessa dotata. Si porta dietro le aspettative della famiglia modesta, l’obbligo morale di non deluderle. Incontra il Movimento nascente sulle scale della facoltà di Lettere: lo guarda con un po’ di diffidenza, poi ne è conquistata. Le riunioni, le discussioni, le assemblee, gli interventi ai cancelli delle fabbriche, i volantini, scritti dagli uomini e ciclostilati dalle donne, diventano la sua vita. Va a vivere in una Comune ricalcata su quelle che proliferavano in Germania. Si innamora e intreccia una relazione difficile con uno dei tanti giovani dirigenti di allora. Resta incinta. Abortisce con un dolore profondo.

QUELLA DI ROSA è una parabola come tante, una storia normale nella corrente veloce di un momento storico che di normale non aveva nulla. Il talento della scrittrice sta nello scrostarla dalle mitologie facili, dai luoghi comuni che ne hanno reso il ricordo un cliché. I compagni sono spesso noiosi e saccenti. Le discussioni sconfinano nel dibattito dottrinario. La storia d’amore con il piccolo leader già sposato che può dedicare a Rosa solo i ritagli di tempo sottratti alla famiglia e al lavoro politico è intensa ma sofferta, fatta di passione e frustrazioni, di un dolore che riflette quello dell’altra Rosa nel rapporto con Jogisches. Ma l’emozione pervasiva è quella di un’immensa felicità che prevale su tutto e su tutto ha la meglio. Nasce dalla scoperta imprevista e inebriante di una libertà che è individuale e collettiva, privata e pubblica. Perché questo è stato «il Sessantotto», dietro le parvenze della scolastica marxista: un attimo breve ma travolgente di felicità pubblica indotta non dalla scoperta di una possibile liberazione subito e per tutti. Praticata invece che postulata. Vissuta senza teorizzarla.

QUELLA LIBERAZIONE non era uguale per tutti. Gli uomini restavano uomini, un potere eterno e dato per scontato. Un elemento naturale, non modificabile, impermeabile anche al diluvio liberatorio. Le donne tacevano in assemblea e si davano da fare al ciclostile. Il femminismo ruppe quell’ «ordine naturale» e Ritanna Armeni descrive con precisione sintetica ma minuziosa la genesi e il deflagrante prodursi della lacerazione che cambiò tutto per sempre.
È la parte centrale e più essenziale del libro, forse anche la più sofferta. Armeni rivendica in pieno quella rivolta. Ne è orgogliosa. Però non la contrabbanda come una marcia indolore: è consapevole della frattura che implicò e ancora implica.
Da anni Ritanna Armeni insegue, libro dopo libro, la storia nascosta dell’emergere del femminile nel XX secolo. Sin qui lo aveva fatto riscoprendo e raccontando vicende sconosciute o dimenticate, quella di Inessa Armand, rivoluzionaria e amore segreto di Lenin, quella delle Streghe della Notte, le aviatrici sovietiche che ogni notte su aerei quasi giocattolo attaccavano le truppe tedesche, quella di Mara, ragazza di Salò.
Stavolta il compito era diverso. Si trattava non di riscoprire vicende ignote ma di disseppellire la verità di una storia notissima e vissuta dell’autrice in prima persona: la sua anima. Il risultato è brillante. Se ci si dovesse affidare a un solo libro per capire e sentire cosa è stato il Sessantotto, quello sarebbe Per strada è la felicità.