«Fuck the peasants!» – comincia così il primo divertente romanzo di Jonathan Galassi (La musa, Guanda «Narratori della Fenice», pp. 247, euro 18,00). «Maledetti contadini!», traduce Silvia Pareschi, forse i lettori potranno supplire qualcosa di più volgare. «Quell’antico grido della steppa russa – continua Galassi-Pareschi – era il brindisi caratteristico di Homer Stern, fondatore, presidente e proprietario dell’elegante e squattrinata casa editrice indipendente Purcell & Stern. Lo pronunciava spesso alle cene ufficiali, alzando il bicchiere per festeggiare le vittorie oppure, meglio ancora, le sconfitte dei suoi autori, dopo le numerose cerimonie di premiazione che costellano l’anno editoriale».
Stern, grosso editore che si dà molto tono, litiga, disprezza, vocifera, se la fa con tutte le donne disponibili che gli capitano a tiro, è «la quintessenza della volgarità» (come avrebbe detto una delle Sirene di Joyce). Ma è anche un gran signore nella vita e nell’editoria, e per quanto discenda presumibilmente da contadini ebrei-tedeschi, inveisce conto hoi polloi (come li chiamano gli angloamericani), cioè tutti coloro (lettori, autori, agenti ecc.) che non fanno parte della sua scuderia di scrittori d’eccezione o non li tengono nel dovuto conto. E i miseri che non sanno vivere, e che non tutti i giorni si regalano una gita in motoscafo per i canali di Venezia come il suo aiutante Paul Dukach cui presto cederà le redini della venerata P&S di Union Square, New York.
Ora, Jonathan Galassi è da anni al timone di una casa editrice fra le più prestigiose, la Farrar, Straus & Giroux, ed è subentrato al suo capo Richard Straus, noto internazionalmente per le sue maniere becere-raffinate e per il suo fiuto in materia di autori insieme grandi e capaci di vendere, come i suoi «Tre Assi», i tre poeti premiati a Stoccolma (Farrar Straus, detta FSG, pubblica Heaney, Brodskij e Walcott; sotto la direzione del capace e gentile Galassi ha acquisito Franzen, Eugenides ecc.). Galassi elenca tutti questi pezzi forti cambiandone i nomi in modo più o meno immaginoso (Brodskij diviene l’esule Dmitry Chavchavadze), ma li rappresenta suppergiù come in effetti erano, cioè spesso narcisisti e settari, eppure naturalmente il loro papà-editore li ama e li coccola.
La musa è dunque una satira affettuosa, dove una parte del piacere della lettura sta nell’identificare i personaggi che un lettore forte è orgoglioso di riconoscere a prima vista e nel godere il gioco dei travestimenti e delle strizzate d’occhio del tranquillo Galassi. Ma Galassi è anche un intimo di queste stanze dei bottoni editoriali e soprattutto dei due giganti che sono i suoi inimitabili maestri, cioè appunto «Homer Stern» della P&S e il suo avversario più squisitamente letterario e avanguardista (e poeta egli stesso), «Sterling Wainwright» della Impetus, fra i cui principali autori è il notorio Arnold Outerbridge («A.O.»), che ha avuto guai a causa delle sue odi staliniste ma ha cambiato il modo di scrivere poesia, e sta trascorrendo gli ultimi anni silenziosi a Venezia con una bella famosissima poetessa, Ida Perkins.
Il lettore di «Alias-Domenica», che il 25 gennaio scorso ha pubblicato la mia recensione della recente biografia dell’editore-poeta James Laughlin (1914-’97), non ha difficoltà a riconoscerlo in Sterling Wainwright, tanto anglosassone (ancorché irlandese d’origine) quanto ebraico è Stern, né a vedere che il suo grande e maledetto autore A.O. che grida «make it new» è E.P, alias Ezra Pound, un E.P. non mussoliniano ma staliniano.
Galassi strizza ulteriormente l’occhio inserendo nel racconto i personaggi allusi con il loro vero nome: «Da Londra Outerbridge, così come Pound da Rapallo, aveva manovrato i fili delle sue giovani marionette a Oxford, New York e San Francisco, e Sterling gli si era consegnato spontaneamente». Come sanno i lettori delle poesie di Laughlin, Una lunga notte di sogni, pubblicate anche queste da Guanda (e da me tradotte), il giovane James, come il suo alter ego Sterling, subì definitivamente l’ascendente di Pound fin da ragazzo (quando lo visitò a Rapallo) e poi ne fu per decenni il principale editore e campione. La casa editrice di Laughlin, che vanta nella sua scuderia il gotha del modernismo oltre al poeta del palcoscenico Tennessee Williams, si chiama New Directions ed è tuttora fiorente a diciotto anni dalla morte di Laughlin. Lo Sterling Wainwright di Galassi è il capo della Impetus, termine che in fondo dice bene l’originaria propulsione poundiana. Impetus vs. H&S, cioè ND vs. FSG (come le chiamiamo oggi).
Come Laughlin, Wainwright ha avuto una lunga serie di amori e almeno tre mogli, e si divide fra l’ufficio newyorkese e la sua residenza nelle remote colline di Hiram’s Corners (Hiram Handspring era uno degli pseudonimi di Laughlin), che in tutto tranne il nome replica Norfolk nel Connecticut, la cittadina dove Laughlin viveva e pubblicava.
Amico e pressoché discepolo sia di «Homer» che di «Sterling» (cioè di Straus e Laughlin), Galassi in La musa ci racconta questi due grossi e accattivanti personaggi, ciascuno coi suoi lati sfuggenti e magari sgradevoli. Sterling è molto amico del giovane Paul (per quanto detesti, ricambiato, il suo capo Stern), paternamente lo intrattiene raccontandogli le sue mille avventure con gli idoli di Paul. Le avventure che Laughlin racconta nelle sue poesie: «Brancusi non aveva molto da dire ma sapeva / fare un ottimo stufato rumeno e dopo pranzo / gli piaceva dondolare testa in giù attaccato con / le ginocchia a un trapezio da scimmie mentre il / suo grammofono strepitava il Bolero di Ravel» (Una lunga notte di sogni, p. 209).
L’italiano di origine Galassi diviene dunque Paul Dukach (altro nome non anglosassone) e La musa è il racconto delle sue passioni e iniziazioni, dovute soprattutto ai suoi due possenti Chironi. D’ogni tanto ci parla anche di qualche suo poco risolutivo amore gay (Galassi fece un coming out anni fa e ha pubblicato nel 2013 una raccolta di poesie, Left-handed, che dice questa sua crisi personale avvenuta in età ormai matura – è del 1949 – e costata non poco in termini affettivi, poiché aveva moglie e figlie).
Ma l’amore principale di Paul Dukach è riservato ai libri e a quei mostri impossibili che sono i Grandi Autori, quelli che in effetti cambiano il mondo con le loro parole. E qui emerge la vicenda che in La musa tralascia il rispecchiamento ironico-affettuoso che è uno dei suoi punti forti. C’è la più grande poetessa americana del ventesimo secolo, Ida Perkins, cugina e amante da giovane di Wainwright, che ha fatto una carriera luminosa, un misto di Plath, Dickinson, Szymborska, Millay (la bella e promiscua poetessa del Greenwich Village). Quando Ida muore a Venezia ultraottantenne il giorno del suo compleanno, Obama lo dichiara festività nazionale…
Galassi forse esagera un po’ con questa fantascienza letteraria. Ma ci fornisce anche qualche scampolo non male delle poesie di questo presunto genio universale, un po’ alla H.D. (Hilda Doolittle): «Mnemosyne ricorda. È il suo mestiere. / Il caldo immobile, / lo splendore, la trance, / il lob / senza potere; e poi la sera: / il fresco, il cardigan / sulle spalle tese, / il miope sguardo accusatore / sul prato / dove le pecore del grand’uomo / brucano come in un sogno sommerso».
Il grand’uomo è ovviamente l’allampanato Sterling, accanto alla cui gran casa, come accanto a quella di Laughlin a Norfolk, brucano le pecore. Ma qui non è lui l’amante, bensì… Non si può dire, pur avendo io conosciuto il presunto oggetto d’amore di Ida, e posso testimoniare che la trovata è improbabile se commisurata al personaggio reale ma abbastanza felice.
La musa è un ritratto vivacissimo del mondo editoriale e una storia di libri collocata consapevolmente in un momento di crisi del sistema, in cui i vecchi editori-padroni e le loro imprese talvolta ancora nobili stanno scomparendo, con quei loro bellissimi doni (l’editoria americana ha una speciale tradizione di eccellenza nella fattura del prodotto). Paul Dukach, dopo aver ereditato da Homer Stern la P&S, la lascia quando viene acquistata dal gigante delle vendite online Medusa e diventa… scrittore. E sono belle le ultime pagine in cui contempla dalla finestra un paesaggio americano, senza storia e senza libri. Ma intanto scrive, cerca di lasciare una parola sua accanto a quelle di A.O. e la meravigliosa e purtroppo inesistente Ida.