La Berlinale 68 è finita tra le polemiche sui premi, stavolta più acide del solito, e i bilanci sulle cifre che sottolineano il successo dell’Efa, il mercato europeo (10mila visitatori da 112 Paesi), l’alto numero di biglietti venduti (330mila) e di accreditati (21mila). La prossima edizione (7-17 febbraio 2019) sarà l’ultima con la direzione di Dieter Kosslick anche se probabilmente le strategie per la successione cominceranno a essere studiate (e praticate) sin da ora, o forse sono già in atto come ha dimostrato la lettera pubblica in cui molti registi chiedevano, qualche mese fa, la massima trasparenza per la nuova nomina.

 

 

Si rimprovera al festival tedesco di avere un concorso debole, brutto persino ma: proviamo a ricordare il concorso di Cannes dello scorso anno o certi titoli di Venezia, non siamo dalle parti della perfezione. È vero, la selezione per l’Orso d’oro è ondivaga – vale anche questo però per tutti i festival specie quelli grandi che devono fare i conti col mercato, con le distribuzioni, con le «quote» di cinema nazionale, con la concorrenza degli altri festival – e preoccupata – è l’altra critica che gli viene mossa – di volersi sintonizzare, penalizzando la qualità, coi tempi attraverso film che esprimono un soggetto forte, di attualità, i migranti o quest’anno le donne vista l’esperienza col movimento #Me Too.

 

 

I temi riconoscibili del presente sono sì privilegiati ma a parte alcuni esempi (Eldorado) si è vista in molti film in gara una ricerca che interroga il senso del cinema «politico». Sono politici i film di Lav Diaz (Season of the Devil) o di Christian Petzold (Transit) in cui gli argomenti trattati, le Filippine nella dittatura di Marcos, l’Europa di oggi stritolata tra ossessione della sicurezza e discriminazioni quotidiane, diventano il punto di partenza per una ricerca che interroga le immagini e il loro racconto. E lo stesso vale per Isle of Dogs, l’animazione di Wes Anderson – Orso alla miglior regia.

 

 

Non solo. La Berlinale rispetto a altri festival «grandi» con il Forum, Panorama, la retrospettiva, offre dei festival nel festival in cui scoprire nuove tendenze o ritrovare autori che si amano. Come Hong Sang-soo, lo scorso anno in gara con On the Beach at Night Alone, stavolta al Forum con Grass, variazione in bianco e nero sulle possibilità del racconto che mette al centro la sua musa, l’attrice Kim Min-hee (premiata lo scorso anno con l’Orso d’oro). In un piccolo caffè, luogo sentimentale del suo cinema, una ragazza solitaria (Kim Min-hee) scrive osservando la clientela. Nel coglie i frammenti delle conversazioni, i toni della voce, sussurri o scatti improvvisi di liti in cui ricorrono incomprensioni amorose e il trauma di un suicidio. A un certo punto arriva il fratello della giovane donna per presentarle la fidanzata con la quale vuole sposarsi; le parole di lei sul matrimonio, e sulla possibilità di essere felici con qualcuno, lasciano intuire che nei suoi scritti si parla d’amori infranti o di rotture proprio come accade tra i frequentatori del caffè che forse sono tutti i personaggi delle sue storie.

 

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Lo spazio  della narrazione e le sue possibili variazioni che attraversano il cinema di Hong, vengono qui percorsi con un movimento diverso. È come se questo film fosse un capitolo di passaggio, come era La caméra de Claire nel confronto tra «realtà» e «messinscena»; lì era l’immagine qui la scrittura nel suo divenire, che sperimenta direzioni molteplici, si impenna, compie strani detour, dimentica qualcuno per ritrovarlo e infine ricompone tutto senza chiudersi mai. Una danza tra «erbe folli» che spuntano all’improvviso, di cui ciascuno (lo spettatore) può cogliere qualcosa, un dettaglio, un’ombra appena di spalle.

 

 

Bianco e nero è anche la scelta di Jean Paul Civeyrac, cineasta francese in Italia quasi sconosciuto per Mes Provinciales (Panorama), un’opera alla quale ha lavorato molti anni, che nelle passioni cinefile di cui è permeata dissemina qualche riferimento biografico. Il protagonista, lascia Lyon, dove è nato Civeyrac, per studiare cinema a Parigi, approda all’università di Paris VIII, dove il regista insegna, e chissà se c’è un po’ di lui nei docenti con cui studia Etienne (Andranic Manet),e negli altri compagni di corso che incontra, l’intransigente Mathias (Corentin Fila) e il più morbido ma fragilissimo Jean-Noel (Gonzague Van Bervesséles).

 

 

Ma in questo che appare come un romanzo di formazione sospeso tra l’irruenza dei sogni di gioventù e la disillusione dell’età adulta, gli amori perduti e quelli ritrovati, i dolori inattesi, le scelte che premono e disorientano, le letture e i film che guidano, è soprattutto il cinema il protagonista. E non solo per i riferimenti, gli omaggi amorosi – Bresson, Garrel, la «serie b» italiana; la ricerca del protagonista, aspirante regista si confronta con le scelte artistiche, di sguardo, che sono anche di vita: che film fare, come conciliare le proprie passioni, la radicalità di un progetto e la sua condivisione, ciò che si ama e ciò che è personale, il compromesso e l’invenzione.

 

 

 

Inconciliabili almeno nella sua risposta su quel filo sottile che li oppone e che Civeyrac sembra fare suo, qui certamente con la propria esperienza di cineasta che deve difendere con ostinazione il proprio progetto.
Come quel suo «Provinciale» impacciato e a volte confuso che la realtà intorno sembra osservarla sempre un po’ da fuori, in una distanza che è quella del racconto di una vita.