Volti, miti e immagini della terra nel mondo antico è il delicato sottotitolo della mostra inaugurata dalla Soprintendenza Speciale di Roma il 22 aprile scorso, in occasione dell’Earth Day, tra i fornici del Colosseo.
Curata da Maurizio Bettini e Giuseppe Pucci e aperta al pubblico fino all’11 ottobre, Terra Antica «approfondisce, secondo i saperi dell’antropologia del mondo classico, gli argomenti di Expo 2015», ha tenuto a sottolineare il soprintendente Francesco Prosperetti.

Settantacinque reperti narrano così la sacralità della terra, incastonati in un percorso visivo alternato tra le sfumature di grigio, rosa e verde delle statuette preistoriche, le improvvise esplosioni di rossi pompeiani e il bianco e nero dei paesaggi ancestrali ritratti da fotografi contemporanei. Un percorso catartico che accompagna il visitatore nelle viscere della biosfera, tra preghiere e maledizioni, per lasciarlo tornare a riveder le stelle più consapevole sulla storicità del rapporto di Homo sapiens con la natura.

Il viaggio ha inizio con capolavori naïf del Paleolitico Superiore, tra i quali spiccano la Venere di Willendorf, prestata dal Naturhistorisches Museum di Vienna, e la Venere di Savignano sul Panaro, conservata al Pigorini di Roma: statuette femminili dalle forme pronunciate, interpretate in passato come dee madri rappresentanti la fecondità della donna e quella della natura, tipiche di popoli infantili che adorerebbero gli elementi primordiali. Un’ingenuità difficile da riscontrare nelle geometrie neolitiche concesse dal Museo Archeologico di Cagliari.

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Dalle dee madri, l’itinerario conduce all’affascinante narrazione della genealogia degli dei. Esiodo, nella Teogonia, definisce lo stato di nulla che precede l’ordine divino «Chaos»: un termine la cui etimologia riporta a un verbo che significa «spalancare la bocca». All’inizio quindi, prima del Verbo biblico, ci fu un enorme sbadiglio. Solo dopo arrivò Gaia: la Terra.
«Origine del Cosmo e degli dei, madre generatrice di ogni bontà e ricchezza, spazio infero e buio, in cui il basso occupa il posto dell’alto, le tenebre quello della luce, la morte quello della vita», scrive Maurizio Bettini nell’interessante catalogo curato da Electa.

Gaia non è donna dimessa, ma la matrona capace di catalizzare il violento processo della Gigantomachia che porterà all’imposizione di quell’ordine definitivo scolpito sulle metope del lato est, quello principale, del Partenone. Se sbadiglio fu, non accadde certo per rassegnazione a un disordine dalla vita breve. Dal fango sarebbero sorti Adamo, Pandora, l’Enkidu del poema Gilgamesh. Homo vuol dire «il terrestre», sottolineano i curatori, e ha la stessa radice di humus: «terra».
Nella democratica Attica, però, l’uomo non nasce impastato dalla terra, ma da essa emerge. I primi re di Atene, Cecrope e Erittonio, avevano metà corpo in forma di serpente, l’animale terrestre per definizione. Tale mito raggiunse anche l’etrusca Vulci, come rivela sotto le arcate dell’Anfiteatro Flavio un vaso attico a ceramiche rosse proveniente da Monaco di Baviera, con Atena che accoglie Eretteo dalle braccia di Gaia.

Un passo in avanti, deciso, si compie a Roma. Qui sono gli uomini stessi a creare la terra. Durante l’atto di fondazione, Romolo ordina di scavare una fossa chiamata mundus, nella quale ciascun astante getta una zolla portata dalla propria patria di origine. L’Urbe è quindi generata da un atto cosmogonico a tutti gli effetti. Anche i soldati compartecipano di questa sottile forma di onnipotenza concessa loro dal proprio status antropocentrico: il bronzetto di un legionario, dal Museo della Civiltà Romana, aziona la groma, uno strumento utilizzato per tracciare sul terreno allineamenti ortogonali, necessari per asservire a un intelletto ordinatore i confusionari spazi della natura.

Non ovunque arrivano i raggi del sole. Il mondo è anche sottosuolo. Lì dovevano arrivare i messaggi salvifici condotti dalle laminette orfiche – splendente nel suo oro quella rinvenuta in una necropoli di Vibo Valentia e datata alla fine del V secolo – e gli spietati anatemi delle tabellae defixionis – in piombo per scendere più facilmente agli inferi – delle tombe romane lungo la via Latina e l’Ardeatina.
Alcuni scienziati sostengono che sarebbe opportuno definire l’attuale epoca geologica «antropocene». Pochi, ormai, sono i paesaggi incontaminati immortalati nelle fotografie scelte per Terra Antica da Roberta Valtorta, direttore del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo.

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Carotaggi sulla superficie della calotta polare artica hanno dimostrato che, tra il I secolo a.C. e il III d.C., l’estrazione del piombo immise nell’atmosfera terrestre una quantità pari al 15 % dei gas nocivi rilasciati dai mezzi di trasporto nel XX secolo. Frane e alluvioni, seppur provocate dal disboscamento, erano per gli antichi da attribuire a punizioni divine.
La rassegna si congeda non a caso con il calco in gesso del larario della Casa di Caecilius Iucundus, raffigurante i danni del terremoto del 62 sugli edifici del foro di Pompei.
I fenomeni sismici sono le doglie della madre terra, si disse. Per calmarla, basta sacrificarle una «scrofa pregna», secondo il modello dei riti propiziatori per Ceres e Tellus.

L’Expo milanese, parlando di cibo, racconta tra le righe del rapporto tra uomo e terra; la mostra romana ricorda con maggior decisione una lunga catena di incomprensioni tra figli stolti e una stanca madre. Un’arroganza quasi costitutiva che rischia di rendere il pianeta esangue. Ammoniva Seneca duemila anni fa: «non contenti della terraferma, costruirete anche sul suolo artificiale che avrete sottratto al mare». La maggioranza, tuttavia, continuò a credere allo sterile rimedio delle scrofe pregne.