Anche l’ultima edizione del Chelsea Flower Show, la più importante esposizione di piante e giardini organizzata ogni anno a Londra dalla Royal Horticultural Society, si è conclusa come d’abitudine con tutti i biglietti d’ingresso andati esauriti da tempo malgrado il ragguardevole costo medio, che si aggira intorno alle 50 sterline. Un vero e proprio rito di passaggio che, ripetendosi ogni fine maggio nei giardini del Royal Hospital, nell’esclusivo quartiere di Chelsea, celebra per gli oltre 165mila visitatori, e per il mondo del giardino collegato in diretta, l’ingresso nella primavera …inglese. Un rito che, da oltre un secolo, registra stato e tendenze dell’arte del giardino.

Nell’intreccio fra una cultura orticola storicamente radicata e diffusa nella sensibilità anglosassone e una logica di mercato che spettacolarizza e fa marketing di ogni passione, il Chelsea Flower Show si assicura una copertura mediatica a tutto campo su stampa e tv e l’interesse di ricchi sponsor, non solo inglesi. Investimenti e attenzione che permettono di attivare una considerevole macchina organizzativa.

Al centro di una superficie complessiva di 45mila metri quadri, un enorme padiglione coperto è dedicato ai vivaisti che ogni anno allestiscono le loro collezioni tematiche e presentano i risultati dei nuovi incroci concorrendo, oltre che al premio per la Pianta dell’anno, a distillare e a diffondere una cultura orticola che trova felice riscontro in un pubblico assai competente; curioso anche se tendenzialmente tradizionalista, delle più diverse estrazioni sociali, anche se, in genere, non proprio giovane.

Attorno, sui viali e nell’area più defilata dei Ranelagh gardens, oltre 250 espositori di articoli relativi all’arredo «verde». E, soprattutto, a contendersi l’attenzione dei visitatori, nonché le medaglie nelle tre categorie previste, i giardini appositamente realizzati per la manifestazione. Gli Show gardens, giardini palcoscenico di maggior dimensione e impegno realizzativo; i più piccoli, gli Artisan gardens, che si contraddistinguono per l’afflato naturalistico e le ricercate lavorazioni e i più sperimentali, quanto a design e uso dei materiali, i Fresh gardens.

L’edizione 101 di quest’anno, la prima dopo lo sforzo celebrativo del centenario, prova a riorganizzare le forze e tenta di aggiornarsi al nuovo secolo. Molti, insolitamente, i progettisti giovani, chiamati a presidiare alla realizzazione dei giardini, oltre ai nomi di artisti collaudati. Ma permane una certa patina di ripetitiva, tendenziale uniformità. Aggirandosi nei viali, si rinnovano echi di declinazioni diverse di una formula ricorrente che vuole accostamenti a contrasto più o meno rigido o graduato, di piantagioni naturalistiche (con tendenza al meadow controllato, pur ammiccando alla wilderness) e elementi architettonici, strutture d’arredo scultoreo.

Pure, una serie di episodi emozionanti esteticamente sfuggono alla tenaglia tra ragioni della comunicazione degli sponsor e formati standardizzati, forse anche perché avvitati in percorsi realizzativi davvero impervi, esito paradossale della disponibilità per gli autori di ingenti mezzi e strumenti.

È evidente che nel progetto – se la meccanica della fruizione di questi giardini che si è costretti a percorrere solo con lo sguardo, senza poterli abitare, è quella scopica delle prospettive dei due lati dai quali in genere è possibile osservarli (e riprenderli in tv) –, vengono assunti proprio i termini assiali che questa visione obbligata prevede: un lato lungo, privilegiato come quinta parallela, spalla, diaframma e quello corto, sorta di cannocchiale visivo dove scandire la successione dei piani. Il tutto, in giardini perlopiù disposti in piano, senza poter prevedere grandi dislivelli, se non quelli di segni a terra e specchi d’acqua, gradini ribassati o risicate collinette. Uno schema, un’impostazione che, almeno in alcuni casi, in alcuni Fresh gardens, comincia ad essere felicemente forzata, pur senza cadere nell’astrazione concettuale. Come per il giardino capovolto di John Warland, The World Vision Garden (che celebra le pratiche di contrasto della carestia in Etiopia), con piante appese sottosopra, paracadutate e restituite da uno specchio inclinato sul pavimento. O nell’Himalayan Rock Garden, un giardino tappeto, collage di contrasti di colori e culture, materiali e piante migranti, o ancora in The Cave Pavilion, sorta di vivente foto tridimensionale, paesaggio in prestito da una nuova generazione di cacciatori di piante.

Traguardando oltre i condizionamenti di un simbolismo corporate, conviene distogliere l’attenzione dalla segnaletica e dalle linee guida dei folder di presentazione, tralasciando il richiamo alle celebrazioni della Prima Guerra mondiale, con il papavero ovunque come simbolo dell’edizione, o i riferimenti a pretesi modelli «storici» del giardino, da un Rinascimento imperiale alla genovese, alla Persia paradisiaca, all’esotico di Cape Cod in un neoglobalismo stinto dove le latitudini si sovrappongono e elementi caratterizzanti – la loggia, la statuaria classica, ma anche il topiario «filologico» –, presi di peso, vengono «attualizzati» in una replicabile sorta di merchandising «per tutti». Così, bendisposti nell’avventurarci tra i giardini, pure ci si fanno incontro una serie di flash che avvincono.

Il percorso a zig zag tra il verde imperlato delle alchemille e la trama larga delle betulle nigra nel giardino Dolphin del debuttante Matthew Childs, trasposto in altezza dagli sfalsati portali di rame ossidato; il gioco sfrangiato di ombre e riflessi dei fogliami grigi e dei cuscini cioccolata del geranio Sanne sulla lingua di ghiaia che sdrammatizza il paradisiaco impianto con fontana ottagonale alla Depero nel giardino di Cleve West; la scansione contrappuntata di vuoti e pieni, nuda terra battuta e affollarsi di lupini gialli e crema nell’intervento di Luciano Giubbilei, vincitore del premio Best in Show, italiano da tempo acclimatato alla cultura del giardino inglese, che vede in dialogo con la forte personalità dei due alberi snodo di amelanchier la primigenia scultura in legno di cedro di Ursula von Rydingsvard. E via girovagando.

Dal fiume di iris azzurri che percorre il letto del Waterscape Garden del ventisettenne Hugo Bugg, al ruscello vero del giardino in blu di Patrick Collins che discendendo rallenta il suo corso. Fino all’addensarsi e diradarsi di cippi di granito grigio alla Beuys nel giardino di Matthew Keightley, Hope on the Horizon, tra l’infilata di carpini, in un flusso di energia vegetale tesa tra la verticalità delle infiorescenze di salvie, lupini, digitali – come dei verbaschi brunati e degli eremuri del confinante Giardino stellato, The Night Sky Garden – e lo spumare del finocchio rosso e della stipa tenuissima addensata attorno ai cippi mimati qua e là anche da cubi di bosso topiato.

Merita, infine, soffermarsi ancora sulla unicità proposta nel Paradise on Heart del giapponese Kazuyuki Ishihara, nella categoria Artisan, dove il messaggio di un giardino che ci riconcilia con il mondo ma che si può visitare una volta e non più (e che occorre perciò ancorare nell’anima per richiamarlo alla coscienza), si traduce in una incredibile icastica capacità di fissare elementi, sensazioni e effetti e di correlarli tra loro nello spazio mentale e fisico del giardino.