La reggia di Nerone riapre al pubblico con la mostra Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche, visitabile fino al 7 gennaio tutti i giorni e, almeno dal venerdì alla domenica, insieme al cantiere di restauro. La chiusura dovuta alla pandemia ha permesso di ampliare il percorso del monumento, arricchito da un ingresso che dal parco del Colle Oppio conduce alla Sala Ottagona, attraverso una passerella ricavata dallo studio Stefano Boeri Architetti in una delle gallerie sotterranee delle Terme di Traiano.
È proprio l’avanguardistica stanza ottagonale la sede dell’esposizione multimediale, estesa ai cinque ambienti radiali con essa comunicanti, mentre nelle vicine sale di Ettore e Andromaca e Achille a Sciro si potranno ammirare in originale le grottesche, dopo averne seguito la scoperta fino al riutilizzo più recente. Intorno all’oculus concepito da Severo e Celere è per la prima volta evocata la coenatio rotunda di cui parla Svetonio: un salotto che ruotava giorno e notte imitando la Terra, forse da collocare sulla Vigna Barberini, forse mai esistito. Se ne suggerisce ora la meraviglia proiettando in movimento sulla volta il cosmo conosciuto in età neroniana, rappresentato sul globo dell’Atlante Farnese prestato dal Mann di Napoli, con l’accompagnamento di una colonna sonora rinascimentale (le ricostruzioni ed esperienze immersive multisensoriali sono dello studio Dotdotdot.
Pioniere del riutilizzo delle grottesche fu Pintoricchio, nella chiesa romana di Santa Maria del Popolo, poco prima del 1478. Poi, nella Domus, scesero Filippino Lippi e Luca Signorelli. Fu Giovanni da Udine a portarci Raffaello, che nel 1516 realizzò la Stufetta del cardinal Bibbiena, qui riprodotta digitalmente in scala reale.

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LE INFLUENZE DELLO STILE custodite dalle viscere di Colle Oppio arrivarono lontano nello spazio – intorno al 1550 perfino a Ixmiquilpàn, in Messico – e nel tempo. «I surrealisti si servirono delle grottesche per giocare con l’inconscio», racconta Francesca Guarneri, archeologa responsabile del monumento. «Salvador Dalí ne raccontò la fascinazione, Paul Klee e Alexander Calder ne trassero ispirazione. Così si è pensato di tornare a sperimentare la pratica collettiva del cadavere squisito». Nei cenacoli parigini degli anni ’20, il primo artista tracciava su carta una parte del disegno, piegava il foglio e lo passava a un ignaro compagno, che continuava lo schizzo. Dopo vari passaggi, non poteva che risultarne una raffigurazione composita. «In modo simile, manipolando quattro ghiere su uno schermo, il visitatore è quindi invitato a comporre una personale grottesca – spiega Guarneri – Sarà un algoritmo a fornirgli il paragone con un’opera d’arte affine».

IL PUBBLICO BENEFICERÀ anche di aree finora precluse, come la Galleria dei Filosofi e il Corridoio delle Aquile; inoltre, sono state restaurate e esposte le sculture della musa Talia e di un’Amazzone provenienti dai depositi.
Ma è il ritorno della luce, controcanto tanto etereo quanto concreto alle grottesche, la novità di principale interesse. «Vogliamo fornire una lettura dell’illuminazione corretta», sottolinea l’architetto Stefano Borghini, tra i curatori della mostra, promossa da Electa, con Vincenzo Farinella, Alfonsina Russo e Alessandro D’Alessio. «La Domus era aurea perché il sole vi entrava con effetti speciali difficili da rendere negli spazi attuali, testimoni dell’avventura di artisti che, a partire dal 1470, si calarono all’interno con corde e torce, immersi in un’oscurità che ricordò loro delle grotte».
L’impianto predisposto trenta anni fa da Acea prevedeva un’illuminazione a scarica di gas, tra le cause dell’alta temperatura responsabile di un nefasto rigoglio di muffe e batteri. Il nuovo sistema, sul quale aveva iniziato a riflettere Sandro Massa contestualmente al progetto di risanamento guidato da Fedora Filippi, tramite un meccanismo di sensori riduce la luminosità al 25% della sua capacità, aumentandone la potenza con il passaggio delle persone.

«DA UN LATO SI RICREA lo stupore della scoperta, dall’altro si garantisce una maggiore tutela», chiarisce Borghini. Gli architetti di Nerone sapevano manipolare gli elementi dell’atmosfera con rara abilità. Finalmente la loro perizia diventa evidente, grazie a una sensoristica che riproduce le fonti originarie di luce naturale, soprattutto in due ambienti: il Grande Criptoportico e la sala di Ulisse e Polifemo, dove la luce fortissima del peristilio si incontrava con la penombra del ninfeo in un ritmo sincopato e musicale, esaltato da una fontana di acqua zampillante che riempiva l’aria di un denso vapore iridescente.