Il panorama musicale novecentesco appare non dissimile dall’articolatissimo arcipelago preclassico: un novero di maniere diversificate per quanto è varia e polivoca la geografia di una società cosmopolita. Sebbene il XX secolo sia stato diversamente e più diffusamente radicale sul piano dello sperimentalismo linguistico, l’assorbimento in chiave regolativa di elementi innovativi ha, com’era prevedibile, continuato ad agire. Anzi, molto più di quanto non sia avvenuto nella letteratura contemporanea, determinati scarti, nell’accezione del formalismo russo, ovvero tratti di alterità della lingua, si sono via via sedimentati e hanno finito per nutrire le più giovani generazioni di compositori. È tanto vero questo, quanto l’evidenza del frequente scadimento nella convenzione. E di cliché il suono dell’universo contemporaneo è dominato e forse saturato. Resterebbe da vedere, come avrebbe detto Ugo Ojetti, se tutto ciò che oggi bolle in pentola, effettivamente coaguli.

Dove la musica preclassica aveva generato figure obbligate delle quali si sarebbero nutriti i compositori più triti dell’età immediatamente successiva, fossero esse tracciati scalari o formule di accompagnamento come il basso albertino, nella nostra contemporaneità hanno fatto ingresso, quali motivi condivisi, innumerevoli esiti dello studio sulla materia sonora: il tratto sperimentale si è fatto però accademia ancor prima che tradizione. Il Novecento, diversamente da quanto disse a suo tempo Eric Hobsbawm, è stato un secolo lunghissimo. In musica, gli anni dello sfaldamento del sistema tonale contemplavano riflessioni apparentemente rimaste isolate: su tutte, quelle di Percy Grainger sulle frequenze del suono, sull’emancipazione dalla metrica tradizionale attraverso le microvariazioni di tono della sua «free music».

Considerata la tradizionale collocazione storiografica, ancora più sorprendenti apparvero le ricerche sui fonemi e sulla vocalità di Arthur Bliss e Benjamin Britten fra gli anni Venti e i Trenta: la scomposizione della parola allo scopo di far emergere i valori espressivi e il potenziale ricostitutivo dei significanti, come in Rout per voce e orchestra da camera di Bliss o in Our Hunting Fathers del più giovane Britten. La strada era aperta per l’omaggio a Joyce del Thema di Luciano Berio del 1958. Quanto a innovazioni arrivate a iscriversi nella grammatica della musica contemporanea, non è meno evidente il seminato di un’esperienza, quella della musica concreta, considerata fallimentare dal suo stesso principale interprete, il francese Pierre Schaeffer. Nonostante sia stata chiusa nei primi anni Sessanta, le applicazioni relative alla varietà degli attacchi sonori, alle variazioni della densità della materia, all’inviluppo del suono secondo le sue diverse fasi sono oramai sistematizzate.

Semmai se ne cercano altre, come fa Helmut Lachenmann con la sua «musica strumentale concreta» e, su questa linea, diversi e meno capaci suoi giovanissimi imitatori. Alla fine, l’avanguardia ha partorito anch’essa i suoi epigoni, come ci raccontano le inarrestabili ricerche sullo strumento tradizionale, che però troppo di frequente portano alla negazione dello strumento stesso. L’acquisita normatività di determinate soluzioni è anche evidente nel fenomeno di trasposizione in area strumentale di applicazioni elaborate nel campo della musica elettronica o di quella digitale. Resta evidente che la nuova grammatica della musica deve essere in relazione con quel nuovo, in termini più estesamente culturali e sociali, portato dal digitale, nonché con il contributo ormai storico e segnante di espressioni alternative come il rock. In definitiva, anche per la musica, come suggeriva Asor Rosa per la letteratura, sarà necessaria «la riscoperta di una nuova origine, di un nuovo primitivo, ma a quota tecnologicamente elevatissima».