In tv e sulla stampa, hanno provato a raccontarci la pandemia esperti di ogni tipo: medici, virologi, epidemiologi, persino i fisici nucleari. Ma quando si parla di cifre e statistiche, quasi tutti consigliano di rivolgersi a Stefano Merler, ricercatore alla Fondazione Bruno Kessler di Trento.
È lui il massimo specialista in Italia sui numeri dell’epidemia, quello che ogni settimana, con il suo gruppo di ricerca, calcola l’indice di trasmissione Rt, aggiorna la letalità del virus, fornisce scenari e previsioni per il Comitato Tecnico Scientifico e per l’Istituto Superiore di Sanità. E a lui bisogna porre le domande più difficili a cui solo i dati, se interpretati correttamente, possono rispondere.
Per esempio esempio: in Italia di Covid-19 si muore di più o di meno che altrove?
Rispetto alla Spagna, che come noi ha realizzato un’indagine sierologica sulla popolazione, il rapporto tra decessi e infetti è simile. Ma sono numeri da interpretare con cautela. Ha poco senso confrontare la letalità complessiva tra due paesi che hanno una struttura demografica diversa. Bisogna confrontare fasce di età omogenee, come abbiamo fatto in uno studio appena pubblicato su Eurosurveillance. In Svizzera e Cina hanno fatto studi simili, e i risultati sono analoghi ai nostri.
Quindi il nostro sistema sanitario si è rivelato all’altezza di quelli degli altri paesi?
Si è comportato nella norma. I dati però raccontano di un’enorme diminuzione della mortalità, avvenuta successivamente al 16 marzo. All’inizio eravamo impreparati, non si sapeva quali cure sperimentare e il sistema sanitario, soprattutto quello lombardo, era fortemente sotto stress. Passata l’emergenza grazie alle strategie di prevenzione, l’assistenza è migliorata. A inizio marzo trascorrevano mediamente otto giorni tra la comparsa dei sintomi e il ricovero, oggi si viene ricoverati il giorno dopo. Quindi in ospedale arrivano persone in condizioni migliori e per combattere il Covid-19 prima si iniziano le terapie di supporto e meglio è. Risparmiare 8 giorni di tempo è fondamentale.
Qualcuno in ospedale non ci è proprio arrivato.
In un altro studio sui primi 1.591 ricoverati in terapia intensiva in Lombardia, abbiamo contato solo 21 pazienti tra 80 e 90 anni. Un numero così piccolo è difficile da spiegare, in una malattia con un’altissima mortalità tra gli ultraottantenni. È chiaro che sono state fatte delle scelte tra chi ricoverare e chi no, in mancanza di risorse.
Quindi non è cambiato il virus, ma la nostra capacità di risposta.
Puoi giustificare qualunque cosa dicendo “è cambiato il virus”: è una risposta buona per tutte le stagioni. Ma finché non ci sono evidenze è meglio non contarci. Se dovessimo tornare ai livelli di circolazione del virus di febbraio, e sono abbastanza sicuro che non ci torneremo, secondo me la mortalità aumenterebbe di nuovo.
In termini assoluti, in questi giorni si registrano numeri di casi positivi crescenti. Eppure il valore di Rt rimane sotto 1. Come si spiega?
L’età media dei contagiati si è abbassata. Sono davvero i giovani quelli che si infettano di più. Lo dimostra lo studio sierologico nazionale dell’Istat: inizialmente il contagio ha riguardato tutte le fasce di età in modo omogeneo, quindi l’età media dei casi dovrebbe aggirarsi intorno ai 50 anni. E invece è meno di 30 anni. Dato che i giovani sviluppano meno sintomi, troviamo tanti casi positivi ma meno casi sintomatici, cioè meno “malattia”. Quindi in questo momento, guardando solo ai sintomi, non vediamo una malattia in crescita. E dato che Rt è un indicatore della crescita della malattia, rimane basso. Ma quello che succederà nel medio e lungo termine è difficilmente valutabile. Gli anziani oggi hanno un atteggiamento più prudente, non vanno in discoteca e portano di più la mascherina. Ma se l’incidenza dovesse aumentare anche solo tra i giovani, proteggersi diventerebbe più difficile per tutti, anche per chi fa attenzione.