Il festival della bontà è proseguito anche ieri. Stavolta non nei giardiani del Vaticano ma durante i colloqui con il capo dello stato Giorgio Napolitano. «Israele tende la sua mano per la pace ai palestinesi, nostri vicini» ha detto il presidente israeliano Shimon Peres. «Dobbiamo trovare una soluzione concordata e accettata da entrambe le parti… tutti hanno il diritto di vivere in pace», ha aggiunto mentre consegnava a Napolitano la Medaglia d’onorificenza presidenziale dello Stato d’Israele. Non si è sottratto a questo clima artificiale il presidente palestinese Abu Mazen che a sua volta ha incontrato Napolitano. I media italiani, rimanendo alla superfice dei problemi, hanno esaltato la due giorni romana. Qualcuno è arrivato a parlare della nascita di un nuovo “Quartetto” per la pace in Medio Oriente – papa Francesco, Peres, Abu Mazen e il patriarca ortodosso di Costantinopoli Bartolomeo – facendo un torto proprio a Bergoglio e alle gerarchie vaticane che si sono affannate a descrivere la preghiera di domenica sera in Vaticano come un evento puramente religioso e di fratellanza, senza alcuna pretesa politica.

 

E’ fuorviante dare significati più rilevanti a quanto è avvenuto tra domenica e lunedì a Roma. In Medio Oriente attenzioni e giudizi sono stati ben diversi. La preghiera di pace è stata riportata dai giornali israeliani solo con qualche foto in prima pagina e testi brevi. Le reti televisive si sono limitate a rapidi interventi telefonici di aggiornamento, per lasciare spazio alle lotte politiche interne. Conta la realtà, che è sempre quella da alcuni decenni a questa parte: i palestinesi di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est sono sotto occupazione dal 1967 e nessuna parte internazionale impone a Israele di ritirarsi. Papa Francesco ha detto che per fare la pace ci vuole coraggio e molto di più che per fare la guerra. Forse. Più di tutto ci vuole la volontà del più forte di arrivare ad un accordo fondato sulla giustizia. Magari anche evitando di attribuire importanza a chi non ne ha più. A cominciare da Shimon Peres che di quel nuovo “quartetto per la pace”, concepito dalla fantasia di qualcuno, non farà più parte.

 

Oggi cominciano le votazioni alla Knesset per eleggere il nuovo presidente israeliano e tra qualche settimana, a meno di clamorose novità, il 90enne Peres andrà a godersi la pensione. Per aggiudicarsi lo scranno, i pretendenti dovranno ottenere almeno 61 voti sui 120 seggi della Knesset. Altrimenti sarà necessario attendere due ulteriori settimane per una seduta di ballottaggio fra i due più votati. Alla dirittura finale si presentano tre esponenti di partiti e due candidati indipendenti. Il favorito è l’ex presidente della Knesset, Reuven Rivlin, esponente della destra vicino al movimento dei coloni. Rivlin per ragioni personali non è stimato dal premier Netanyahu ma i due condividono gli stessi principi e la stessa politica nei confronti dei palestinesi.

 

Nei palazzi di governo israeliani da alcuni giorni non regna il clima romano della “pace”. Proprio domenica Netanyahu è tornato ad attaccare duramente Abu Mazen per il suo recente accordo di riconciliazione con il movimento islamico Hamas. Ha poi deciso di presentare alla Knesset un emendamento che restringerà la facoltà del capo dello Stato di concedere la grazia a chi si sia macchiato di fatti di sangue. L’obiettivo del provvedimento non sono certo i criminali comuni ma i detenuti politici palestinesi, destinati a rimanere in carcere anche in caso di un accordo di pace. Qualcuno lo chiama, giustamente, l’emendamento anti Marwan Barghouti, perchè impedirà che il più noto dei detenuti palestinesi, nonchè alto dirigente di Fatah, detenuto in Israele dal 2002, possa essere liberato in qualsiasi circostanza. A mettere i bastoni tra le ruole a Netanyahu ci ha pensato, a sorpresa, Yair Lapid, leader del centrista Yesh Atid e ministro delle finanze. Polemizzando con il partito ultranazionalista Casa Ebraica che chiede l’annessione immediata del territorio cisgiordano con le principali concentrazioni di colonie israeliane, Lapid ha avvertito che se sarà assorbita anche una singola colonia farà immediatamente cadere il governo. Netanyahu ha replicato che i piani per il futuro li fa solo lui ma dalla parte di Lapid si è schierato il ministro degli esteri Lieberman che ha notato che «Nell’attuale situazione con i palestinesi, l’annessione (della Cisgiordania) è inapplicabile».