memoriaguerra

Catalogare la guerra, archiviarne le azioni come le armi, i nomi come i luoghi. Un museo che della guerra tutto contenga e tutto trattenga: un collezionismo totale in cui ogni cosa deve essere presente, nessuna scelta, tutto ne fa parte, purché sia guerra. L’obiettivo è l’estensione della pace in opposizione ad un luogo in cui la guerra venga totalmente espulsa dalla storia con il suo carico barbarico, con l’insensatezza di una violenza assurda declinata a fini di potere ancor più insensati.

Contenere dunque la follia della guerra attraverso la certosina maniacalità del curatore del museo che insieme alla sua assistente Luisa è voce e protagonista del romanzo di Claudio Magris, Non luogo a procedere (Garzanti, pp. 368, euro 20). Contenere la guerra e quindi la follia diviene così il paradigma di una società pacificata perché priva di memoria, perché cieca alle proprie stesse pulsioni.

In un’atmosfera rarefatta in cui la lingua densa e arrovellata di Claudio Magris racconta e contemporaneamente domanda e tematizza, chiarifica e sovrappone, il romanzo assume una struttura stratificata. Una sorta di passage tra i vetri rotti della storia che riflettono e confondono, illuminano e disarticolano la storia stessa, rendendola allo stesso tempo inintelligibile e profondamente coinvolgente e vibrante.

Un’atmosfera che ricorda forse non a caso Il cielo sopra Berlino e la nota battuta di Marion, l’acrobata protagonista del film di Wenders: «Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?».

Il romanzo procede così scavando il suo cunicolo all’interno della storia, spostando documenti e riprendendo aneddoti, un viaggio certamente appassionante, ma a tratti inquietante in cui vittime e carnefici mangiano e bevono al medesimo tavolo ognuno legato all’altro da una condanna già decisa. Un’immersione assoluta nella tragedia della guerra che vive del tentativo disperato e sacrificale di contenerne l’essenza, ossia la follia.
Gesto utopico e assurdo: la follia si propaga come un gas e trattiene i protagonisti, li domina nel momento della loro più intensa ricerca, si palesa nella loro trans performativa sgretolando ogni possibilità di salvezza, di pace anche solo presunta.

Dagli eccidi nazisti, alla tratta degli schiavi africani, dalla risiera di San Sabba alle guerre tribali dei Chamacoco e poi armi e strategie, storie minute e grandi azioni. Non luogo a procedere è un romanzo audace e circolare che Claudio Magris controlla con magistrale tensione: non conta l’inizio e non conta la fine, ma è la tessitura stessa del linguaggio che definisce un corpo sempre pronto a sbucare, tagliare e mostrare i segni indelebili di ferite mai rimarginate.

Un libro mondo che dieci anni dopo Alla Cieca ripropone una costruzione simile capovolgendo però il movimento: qui è la storia che bussa alla porta portando con sé il proprio carico di sciagure, ma anche – e non secondariamente – le proprie intime e minime storie, fatte di piccoli oggetti, d’incontri casuali e di affetti vividi nella memoria.

Ma è ad un altro testo narrativo di Claudio Magris che Non luogo a procedere sembra seguire le orme, ossia Un’altro mare in cui l’ossessione vitale del protagonista, Enrico Mreule, si staglia persa e battuta contro la finitudine di una vita che obbliga inesorabilmente alla fuga.
Fuga e follia dunque come elementi liquidi di un discorso che deve farsi poroso e aperto, ma contemporaneamente è destinato alla incontenibilità delle stesse passioni forti e audaci che genera e che poco convengono e poco vengono accolte. La guerra diviene così essa stessa biografia pubblica e privata di un’umanità in perenne contraddizione, un contrasto violento come vitale capace però a suo modo di accogliere quella diversità che la guerra stessa pretende di schiacciare.

Una diversità che Magris restituisce ad ogni livello del racconto, Non luogo a procedere è la costruzione di una macchina densa e ricca a tratti anche soffocante, ma da cui sarebbe errato sottrarsi. Un attraversamento che non può chiedere sconti, ma che restituisce l’epica come la dolcezza malinconica di un tempo passato che è anche il nostro e dentro cui si è inesorabilmente invischiati.