Negli anni Settanta, la rivista indiano-americana Akwesasne Notes produsse un poster su cui erano raffigurati i volti scolpiti nella roccia del Mount Rushmore dei quattro presidenti americani – Washington, Jefferson, Lincoln e Theodore Roosevelt – cui lo scultore Gutzon Borglum aveva voluto rendere omaggio. Dietro di loro, riprodotta in eguale grandezza, si ergeva la sagoma di Toro Seduto e sullo sfondo si leggevano le seguenti parole: Remember, our fathers never sold these lands (ricordate, i nostri padri non vendettero mai queste terre). Questa immagine mi è tornata più volte alla mente nel corso della lettura dell’ultimo libro di Bruno Cartosio, Verso ovest Storia e mitologia del Far West (Feltrinelli, pp. 437, € 28,00) non tanto per il ruolo più o meno importante che queste figure recitano nella complessa trama del libro, quanto perché, come il fotomontaggio di Akwesasne anche il libro di Cartosio propone una lettura critica del movimento di espansione territoriale della repubblica americana.

Sul sentiero delle lacrime
Esplorando le strategie attraverso cui, già nel corso dell’Ottocento (e dunque ben prima che il cinema western la proiettasse su scala globale), alla conquista vennero assegnate caratteristiche «monumentali» e mitologiche, l’autore dimostra quale cruciale funzione ebbero per la costruzione dell’identità nazionale degli Stati Uniti.

Dato che nel mondo moderno, come insegna Roland Barthes (citato da Cartosio), ogni discorso sul mito non può che essere anche un discorso sulla merce, il libro si apre accostando a una disamina della cosiddetta «tesi della frontiera» dello storico Frederic Jackson Turner, presentata per la prima volta nel corso dell’Esposizione mondiale di Chicago del 1893, un’analisi del celeberrimo Buffalo Bill’s Wild West Show, lo spettacolo circense che, nello stesso momento in cui Turner dichiarava la frontiera «chiusa», si preoccupava di celebrarne i fasti rendendola consumabile come spettacolo d’intrattenimento. Ma nel tracciare la formazione del mito e il suo complesso rapporto con i dati storici e sociali, l’autore non tralascia mai i costi umani di quella marcia «verso Ovest».

Senza idealizzare culture e stili di vita delle vittime, Cartosio ci ricorda che l’idea turneriana di una «terra libera» dove si sarebbero forgiati lo spirito d’iniziativa e l’individualismo dell’homo americanus era soprattutto una fantasia rivolta a negare la pulizia etnica che veniva perseguita con inflessibile determinazione. Se da un lato l’espansione verso ovest fu, sin dai primi insediamenti coloniali, nutrita dalla fame di guadagni territoriali e commerciali, nel più vasto contesto di una lotta tra imperialismo inglese, francese e spagnolo, il perseguimento del cosiddetto «destino Manifesto» della nazione non poteva che poggiare su un’esaltazione del carattere virile della superiore razza anglo-sassone, alla quale le tribù indigene dovettero sottomettersi anche quando – come nel caso dei Cherokee della Georgia – avevano adottato costumi e tradizioni americani, s’erano dotati di una propria costituzione, avevano sviluppato un loro sistema di scrittura e stampavano persino regolarmente un loro giornale, il Cherokee Phoenix. Anche i Cherokee furono deportati in Oklahoma e a migliaia morirono lungo il tragico «Sentiero delle lacrime».

Se l’intento dell’imponente studio di Bruno Cartosio è indiscutibilmente demistificatorio (il punto di riferimento dell’autore è quella «New Western History» che da più di trent’anni viene riscrivendo la storia dell’Ovest), il libro che ne è derivato non si limita a sfatare o correggere le leggende contrapponendole in modo meccanico i «fatti» nudi e crudi. Con il puntiglio che contraddistingue tutti i suoi lavori, da Da New York a Santa Fe (1999) a New York e il moderno (2007), da I lunghi anni Sessanta (2011) a La grande frattura (2013), Cartosio snocciola date, nomi e statistiche, ma il suo fine non è ridimensionare la mitopoiesi che sin da subito trasfigurava quei dati in narrazioni favolose, in quadri divenuti celebri, in fotografie che hanno contribuito a dare forma all’identità della nazione.

Al contrario, lo scopo del libro è proprio descrivere come la mitologia sia parte integrante della storia e abbia talvolta contributo a dare forma ai fatti stessi. Fu nell’Ottocento che, attraverso la pittura, la fotografia, la letteratura e la pubblicistica, nonché la politica – il ruolo di Theodore Roosevelt come myth-maker fu fondamentale – prese forma una visione mitologica in cui, a fare da contraltare alla posizione inevitabilmente subalterna dell’indiano, c’erano «uomini comuni e però non comuni per le qualità fisiche e mentali che in essi si erano connaturate» – scrive Cartosio. E aggiunge: «Gli uomini dell’Ovest e tutte le vicende che li riguardavano furono allora distaccati dalla materialità più o meno cronachistica degli eventi e proiettati nell’indeterminatezza dei miti: a loro modo, miti delle origini, a nuovo fondamento della unione rinnovata (dopo la parentesi fratricida della Guerra Civile)».

Nostalgia imperialista
Il libro ha una struttura a spirale. Delinea innanzi tutto le coordinate generali, storiche e ideologiche, per poi scomporre il mondo dell’Ovest nelle sue componenti sociali ed economiche (gli esploratori, i mercanti, i cacciatori, e naturalmente i cowboy, da un lato, e la ferrovia, l’agricoltura, i pascoli e l’industria mineraria, dall’altro) ma anche culturali (le immagini pittoriche e fotografiche della conquista, la letteratura popolare, quegli «eroi» che hanno dato un contributo decisivo al mito del Far West come Kit Carson, Billy the Kid e, soprattutto, Buffalo Bill).
Se scorrendo l’indice del libro si potrebbe avere l’impressione che gli indiani siano relegati al ruolo di vittime o mere comparse, la realtà è invece – come nel poster di Akwesasne – che i Toro Seduto di turno irrompono di continuo nel racconto a ricordarci non solo l’esistenza di un altro punto di vista ma anche che la prevista «estinzione» degli indiani non c’è stata, e che se l’immagine del Far West negli ultimi decenni è venuta radicalmente mutando lo si deve anche al recupero della loro storia.

Almeno due dei numerosi riferimenti teorici del libro meritano di essere ricordati. Il primo Cartosio lo ricava dalla rivisitazione del concetto di «frontiera» proposto da Mary Louise Pratt: se per Turner era il limine tra civiltà e spazio selvaggio, per Pratt la frontiera è una «zona di contatto … in cui culture diverse si incontrano, si scontrano e lottano l’una con l’altra, spesso all’interno di rapporti profondamente squilibrati di dominio e subordinazione».

L’altro concetto chiave è quello di «nostalgia imperialista», il paradosso per cui si «altera deliberatamente una forma di vita e subito dopo (si) rimpiange il fatto che le cose non siano rimaste così com’erano». Resistendo al «desiderio d’innocenza» che per l’antropologo Renato Rosaldo ispira questa nostalgia, Bruno Cartosio ci ha regalato un libro destinato a restare a lungo uno dei contributi più ricchi, profondi e autorevoli su questa materia.