«Dopo un fine settimana in cui le forze armate serbe hanno innalzato il livello di allerta per le tensioni in Kosovo, la situazione è tornata alla normalità. Non è chiaro se a provocare siano stati i serbi o gli albanesi kosovari, entrambi cercano di manipolare l’opinione pubblica. Da parte sua il presidente Vucic, che nelle ultime elezioni ha ottenuto il 50% dei voti, vuole dimostrare al proprio elettorato, composto per lo più dagli abitanti delle aree rurali e dai pensionati, di non aver abbandonato i serbi del Kosovo. In realtà il Kosovo è dato per perso, a dirlo è stato lo stesso Vucic. Per questo né Belgrado né Pristina vogliono lo statuto della Comunità delle municipalità serbe nel Kosovo». Esordisce così lo scrittore serbo Dušan Velickovic, ospite dell’Istituto Italiano di Cultura dove, accompagnato dall’interprete Eugenio Berra, ha letto alcune pagine del suo «Serbia Hardcore» pubblicato dall’editore leccese Besa.

Con noi c’è Massimo Moratti, che ha lavorato sulla protezione dei diritti umani degli sfollati del Kosovo. «L’escalation è una costante di Vucic: lancia proclami allarmistici per dimostrare di essere in grado di gestire le crisi e velatamente suggerisce che truppe straniere, forse americane, presenti nella missione Nato possano creare incidenti per tenere viva l’immagine del complotto straniero. Non è la prima volta che la tensione sale per poi rientrare: a gennaio hanno ucciso un leader dei serbi moderato, non si sa chi si sia stato. A marzo il ministro serbo per il Kosovo è stato arrestato dalla polizia albanese e umiliato pubblicamente a Pristina per poi essere espulso». L’escalation dei giorni scorsi coinvolge la Nato, che conduce esercitazioni pianificate da tempo nel nord del Kosovo, in prossimità di un bacino d’acqua strategico perché in zona serba anche se serve la città di Pristina.

Le tensioni sono legate al fatto che entro sabato scorso bisognava adottare lo statuto della Comunità delle municipalità serbe nel Kosovo che fa parte degli accordi di Bruxelles sulla normalizzazione del Kosovo: se fosse stato adottato, avrebbe assicurato il coordinamento delle comunità serbe e un interlocutore istituzionale di Pristina. La data del 5 agosto era simbolica, spiega Moratti: «Coincide con l’anniversario dell’Operazione tempesta del 1995, quando l’esercito croato riconquistò le zone ribelli dei serbi, mettendo in fuga circa 200.000 serbi che vivevano da secoli nelle Krajine. Per i serbi è genocidio e pulizia etnica, mentre per i croati è una vittoria “pulita come una lacrima”. Per provocare, gli albanesi kosovari ricordano quell’operazione di cui fu protagonista anche il generale croato Agim Ceku di etnia albanese, oggi ministro della difesa del Kosovo». E senza dimenticare la Nato che bombardò i ripetitori radar di Knin.

Al centro c’è il nodo indistricabile del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, autoproclamata nel 2008, in cambio della quale a Belgrado l’Occidente, nei lunghi 16 anni post-Milosevic, ha promesso a parole «qualcosa» in cambio. Senza successo. Nel discorso ufficiale di Vucic, è ancora parte integrante della Serbia, ma di fatto il governo di Belgrado riconosce che le autorità di Pristina esercitano le funzioni di governo sotto l’ombrello della missione Onu. La normalizzazione dei rapporti resta un tema sensibile perché si tratta del capitolo 35 del processo di adesione della Serbia all’Unione europea. La strategia di lungo termine della Ue, aggiunge Moratti, era dissolvere le tensioni nei Balcani attraverso un processo che avrebbe promosso riforme e allineamento con gli standard comunitari in tutti i paesi, oltre che alla riappacificazione dell’intera regione. Il processo di adesione ha ripreso slancio pochi mesi fa, ma l’Ue non ha un fronte unico sul Kosovo perché cinque paesi membri non lo riconoscono».

La questione è più pressante per i serbi che bussano alla porta di Bruxelles, e meno per la leadership kosovara, più indietro nel processo di adesione. Inoltre la coalizione di governo in Kosovo è alquanto eterogenea, dato che il presidente Thaci e il premier Haradinaj appartengono a partiti avversari e hanno creato un governo di coalizione per mettersi al riparo da accuse per crimini di guerra e contro l’umanità. A complicare la situazione, il governo kosovaro si regge anche sui voti della Srpska Lista, il gruppo parlamentare serbo in stretto contatto con l’establishment di Belgrado.

Intanto, i media italiani parlano poco di Kosovo. Il sociologo Alberto Tarozzi, docente all’Università degli studi del Molise, spiega che «l’Italia vive una situazione ambivalente, di ignoranza e opportunismo dovuta agli interessi economico-commerciali con la Serbia filorussa e altrettanti vincoli politico-militari con gli Usa. Da qui, una sorta di censura nella speranza che le questioni non si aggravino. Resta il fatto che gli ultimi eventi difficilmente potranno essere taciuti, anche la Chiesa ortodossa è preoccupata per ciò che sta avvenendo a nord di Mitrovica».