Pasquale Tridico, economista dell’università Roma Tre, lei è stato indicato da Di Maio come ministro del lavoro e Welfare. Ma ha lasciato il progetto, per questioni programmatiche e ideologiche. Quali sono?
Ho lasciato quando ho visto che si profilava l’accordo con la Lega. Dal mio punto di vista di uomo di sinistra un’alleanza di questo tipo è un problema. La mia figura avrebbe creato conflitti. Sono un tecnico e ho fatto un passo indietro. Ora spero che la guida del governo resti in mano al Movimento e all’anima più attenta ai problemi degli esclusi: Di Maio, Fico.

Si augurava un’alleanza tra Cinque Stelle e Pd?
Probabilmente il Pd ha fatto una manovra per spingere il Movimento a fare un accordo con Salvini. Nel Movimento ha prevalso la responsabilità di dare un governo al paese. Sono stati coerenti: hanno sempre detto che il Movimento non è di destra né di sinistra e si allea con chi condivide il programma.

Lo spostamento a destra cosa ha provocato?
La Flat Tax, una tassa regressiva e iniqua. È stato fatto un compromesso che non mi piace su lavoro ed economia. Sono prevalse le esigenze dell’elettorato della Lega, la flessibilità delle piccole imprese che fanno fatica a innovare e comprimono il costo del lavoro. Credo invece sia necessario recuperare i diritti e la dignità del lavoro attraverso la reintroduzione dell’articolo 18, l’eliminazione del Jobs Act, il contrasto alla liberalizzazione dei contratti a termine.

Lei ha chiarito che il «reddito di cittadinanza» dei Cinque Stelle è un «reddito minimo condizionato alla formazione e riqualificazione professionale». Cosa è cambiato nel contratto di governo?
La nostra proposta non era solo per i cittadini italiani, ma per tutti i residenti da almeno due anni sul territorio nazionale. Nel programma si prevede solo per cittadini italiani. Ed è stato limitato a due anni. Il reddito deve servire per attivare i soggetti, ma anche per lottare contro la povertà. Per questo non deve essere troppo stringente in termini temporali.

Ora a cosa serve?
Sarà utile per i beneficiari, anche se è più limitato. Poteva essere rivolto a una platea più ampia e non solo agli italiani.

Nelle bozze del contratto si ripete l’equivoco: si parla di «reddito di cittadinanza»…
Non sarei così critico. È diventato un brand, una proiezione sul futuro. Potrebbe diventare qualcosa di simile a un reddito universale incondizionato.

Oppure a un workfare, con le conseguenze che si vedono nel film Daniel Blake» di Ken Loach.
Ho letto l’articolo in cui lei ha scritto questo. Non sono d’accordo. Dipende come questa proiezione evolverà in futuro. Uno strumento di questo tipo, vista la trasformazione digitale in corso, è assolutamente necessario.

Quanto tempo ci vorrà per realizzare la riforma?
Realisticamente due anni,

Cosa pensa del reddito di base incondizionato?
Oggi non è realizzabile. Con tre milioni di inattivi e un basso tasso di occupazione non è molto appropriato. Il reddito minimo condizionato incentiva al rientro nel mercato del lavoro e cerca di evitare lo sprofondamento verso la povertà assoluta. A patto che venga associato a un programma di investimenti.

Il Sud, a cui i 5 Stelle devono molto, è trascurato nel contratto. Lei cosa aveva proposto?
Destinare almeno il 34% degli investimenti. Considerando che la popolazione del Sud è anche superiore al 34% del totale, la clausola non sarebbe un favore, ma il giusto compromesso per farlo tornare a crescere.

Vedremo che succederà con la Lega. Cosa pensa invece del salario minimo orario, l’unica proposta chiara del contratto?
È una misura che condivido, a condizione che non sia in conflitto con la contrattazione nazionale. È stata da poco inserita in Germania con queste modalità, anche i metalmeccanici lo hanno accettato. Per le categorie non coperte da contrattazione può essere funzionale.

Si vuole rimettere mano al lavoro occasionale. Lei ha capito come?
La situazione dei voucher era insostenibile. Ma la riforma frettolosa di Gentiloni, sotto la pressione del referendum della Cgil, può restare, anche se è limitata. È sbagliato tornarci sopra. Ora è l’ultima cosa da toccare. Non è la soluzione.

Servirà una riforma costituzionale per realizzare l’ampliamento dei centri per l’impiego?
No. Averlo legato, come ha fatto Renzi il 4 dicembre, non ha aiutato. Il problema è gestibilecon provvedimenti ordinari, un agenzia di coordinamento nazionale e aumentando il personale dei centri dell’impiego. Bisogna arrivare a 50 mila dipendenti, oggi ce ne sono 8 mila. Si vogliono stanziare due miliardi di investimenti. Mi sembra un buon inizio. Bisogna fare di più.

Ad esempio?
Assorbire il personale delle agenzie di somministrazione private nei centri per l’impiego.

Cosa farà adesso?
Sarebbe stato più comodo accettare un posto prestigioso da ministro, ma solo in un contesto favorevole. Spero che chi lo farà sia un politico. Io non lo sono, non ho lo stomaco per farlo. Continuerò a fare l’intellettuale, ho la libertà di fare questa intervista. Proseguirò su questa strada coerente con le mie idee.