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Pasquale Scimeca, la serie ininterrotta

Pasquale Scimeca, la serie ininterrotta

Intervista Al Taormina Film Festival 2024, il film «Il giudice e il boss» racconta la storia del magistrato Cesare Terranova, ucciso dalla mafia in un agguato nel 1979 insieme al maresciallo Lenin Mancuso: colloquio con il regista

Pubblicato circa un mese faEdizione del 17 agosto 2024

Presentato nella cornice del Teatro Antico nel Taormina Film Festival 2024, il film Il giudice e il boss racconta la storia del magistrato Cesare Terranova, ucciso dalla mafia in uno spietato agguato nel 1979 insieme al suo stretto collaboratore, il maresciallo Lenin Mancuso. L’autore è Pasquale Scimeca, la cui filmografia, che parte dal 1989, ha già avuto modo di confrontarsi con altri «elementi» di Cosa Nostra insieme a diverse storie della sua Sicilia narrate con un approccio verista. Abbiamo incontrato il regista Scimeca a Taormina.

In «Placido Rizzotto», del 2000, parlavi del sindacalista assassinato nel 1948. Ora, con questo ultimo film, di Terranova e Mancuso. Fanno parte di una progettualità nel raccontare protagonisti meno ricordati della lotta antimafia?
Il mio è un cinema a capitoli. Placido Rizzotto racconta la civiltà contadina. Era importante raccontare quello che succede dopo la morte di Placido Rizzotto. La mafia dei Corleonesi, tramite questo boss più moderno, Luciano Liggio, capace di guardare oltre i confini dei feudi, si trasferisce a Palermo e diventa un fenomeno non solo agricolo ma urbano. C’è una trasformazione della mafia con la speculazione edilizia, l’accumulo del capitale e il traffico di stupefacenti. Liggio rappresenta non solo colui che traghetta ma allarga i confini, arrivando poi a Milano, superando quella che Sciascia definiva la linea della palma, dove intraprende un’attività di accumulo del capitale attraverso i sequestri di persona e il traffico internazionale di stupefacenti e investe questo denaro in attività lecite. Entra quindi in un sistema economico e rappresenta un fenomeno produttivo con connessioni con il mondo dell’economia. Tutte queste cose, che oggi conosciamo, all’epoca erano sconosciute. Chi è che apre la porta? Proprio il giudice Cesare Terranova che, indagando sui Corleonesi, si fa un’idea di quello che la mafia nel frattempo è diventata, coadiuvato da questo grande poliziotto che era il maresciallo Lenin Mancuso. Questo film è una continuazione di Placido Rizzotto per arrivare al momento in cui Terranova e Mancuso vengono uccisi, alla fine degli anni Settanta, e i Corleonesi conquistano la città di Palermo, e il potere in Cosa Nostra. Da lì parte tutto il resto che conosciamo, Falcone e Borsellino, le stragi.

Nel finale di «Placido Rizzotto» fai vedere l’incontro tra i giovani Carlo Alberto dalla Chiesa e Pio La Torre, due future vittime eccellenti. Qui analogamente c’è una scena in cui Terranova e Mancuso parlano delle nuove promettenti leve dell’antimafia, sia nella magistratura che nelle forze dell’ordine, come Falcone, Borsellino, Cassarà. Come mai hai deciso di far finire i film con questi preludi delle vittime successive?
Per parlare di chi ha raccolto le eredità. Dal punto di vista giudiziario sono gli amici di Terranova, Rocco Chinnici e Gaetano Costa. Dal punto di vista della polizia c’è quel nucleo di giovani poliziotti che si costituisce attorno al commissario Ninnì Cassarà: Roberto Antiochia, Natale Mondo, Beppe Montana, Calogero Zucchetto. Erano tutti ragazzi. Antiochia è morto a 22 anni, Zucchetto a 27. Si tratta di raccontare la storia della mafia vista con gli occhi di chi la mafia l’ha scoperta e combattuta. Sono stati Terranova e Mancuso a insegnare la loro nuova metodologia delle indagini a chi è venuto dopo.

Hai un approccio antropologico nel raccontare la mafia, nei luoghi squallidi dei boss. C’entra con il tuo interesse per il verismo e Verga?
Per me l’antropologia non è una scienza, è letteratura. Il punto di riferimento di tutto questo è Giovanni Verga. Devi partire dalla realtà dei fatti anche se questa è ormai Storia, che, per quanto mi riguarda, è il percorso dell’anima dei popoli, delle donne degli uomini. Sicuramente nel mio cinema c’è uno sguardo verghiano sul mondo.

Questo dà una maggior profondità rispetto a tutto un cinema, anche di impegno civile, semplicemente basato sulla contrapposizione tra bene e male. Cerchi di comprendere anche il retroterra culturale dei malvagi, i mafiosi. Confermi?
Paradossalmente chi viene veramente dal mondo popolare, dalla povertà, sono i mafiosi. Liggio veniva da una famiglia numerosa e poverissima, aveva tanti fratelli. Riina era orfano. C’era il desiderio di uscire da queste condizioni di miseria non attraverso lo studio e il conseguimento di una professione. In quella cultura l’ambizione era diventare un capomafia. Borsellino lo diceva sempre: noi facciamo il nostro dovere, ma la mafia non potrà mai essere sconfitta se non la si aggredisce su un piano culturale. La cultura mafiosa, incentrata sulla figura mitica del boss come persona ricca e rispettata, è ancora dominante nei quartieri popolari, in quei mondi dove lo stato è assente. Il cinema potrebbe essere uno strumento per ribaltare questa cultura e costruire una mitologia dei personaggi che la mafia l’hanno combattuta.

Nel tratteggiare la personalità dei boss o dei futuri boss, comprendi la sfera della sessualità. Il giovane Totò Riina si dice essere innamoratissimo della sua fidanzatina Ninetta Bagarella; di Luciano Liggio mostri un approccio sessuale che subisce da un’infermiera. Come mai?
Quella infermiera diventerà la compagna di Liggio e gli darà un figlio. Nella cultura mafiosa tradire la moglie è un fatto negativo. Quando Riina, che ha alle spalle stragi e omicidi, accusa Buscetta di essere immorale per aver avuto tre donne, non è in contraddizione con sé stesso. Questa è la cultura mafiosa. Loro non si pongono nemmeno il problema dell’omicidio. Già da bambini vengono abituati a macellare gli agnellini. Il gesto di uccidere senza rimorsi nel loro mondo è un valore. In passato l’esame per entrare in Cosa Nostra era commettere un assassinio, dimostrando così il proprio «valore».

Qualsiasi altro film che tratta di personaggi uccisi dalla criminalità mostrerebbe la mattanza senza lesinare in dettagli spettacolari e macabri. Tu eviti tutto questo, come mai?
Ho visto le immagini del loro omicidio, fotografate da Letizia Battaglia. Si tratta di qualcosa che va oltre ogni dimensione della dignità umana. Quando sono arrivati i killer, i più spietati, «scarpuzzedda» e Madonia, uomini terrificanti, avevano un fucile Winchester calibro 12 a ripetizione. Hanno incominciato a sparare e il maresciallo ha avuto il coraggio di buttarsi addosso a Terranova. Aveva 8 proiettili dietro le spalle che sono penetrati anche nel corpo del giudice. Un atto che ha suggellato vent’anni di amicizia, non solo di collaborazione. Questo è un motivo, diciamo estetico. Ma il motivo vero è che mi piace l’idea dell’epopea. Volevo raccontare degli eroi del nostro tempo. «Eroi» forse la parola sbagliata, però delle persone. Mi piaceva quindi lasciarli in vita, che lo spettatore avesse il ricordo di loro vivi. Poi lo sappiamo che purtroppo sono morti. Tra le nuove generazioni quasi nessuno conosce Terranova e Mancuso. Spero, con il film, come è successo con Placido Rizzotto, di far rivivere queste persone e di lasciare il ricordo di loro vivi.

Come si inseriscono queste due figure nel complesso della tua filmografia?
Il mio è un cinema sugli ultimi, intesi in senso verghiano, i poveri, i dimenticati dalla Storia, chi non ha voce, chi non ha strumenti per raccontarsi da solo. Il cinema è per me uno strumento per raccontare l’anima dei popoli, in che modo le persone intervengono e contribuiscono a determinare i fatti della Storia. Dai contadini di I briganti di Zabut, il mio film del 1997, che rubano ai ricchi per dare ai poveri e si contrappongono allo strapotere della mafia. E poi Biagio, la storia di un giovane di famiglia ricca che lascia tutto per rifugiarsi nei boschi scoprendo i valori francescani, e i due ragazzini di Balon che fuggono dal loro villaggio africano. Per arrivare a Lenin Mancuso già con quel nome di battesimo dato dai genitori nel 1922, quando il fascismo aveva preso il potere.

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