Celebrare nel tempio, ma senza il popolo. Perché il popolo non ha più un tempio dove pregare. È l’esperienza religiosa al tempo del coronavirus. Ci sono preti che celebrano l’eucaristia da soli, nelle chiese vuote, ripresi da una webcam che trasmette in streaming il rito. E fedeli che guardano la messa in televisione o sullo schermo di un computer o di uno smartphone, come spettatori di un film o di una serie su Netflix. Un’immagine è diventata icona di questo tempo: papa Francesco che prega da solo, al centro di una piazza San Pietro vuota. Il rovesciamento della natura profonda della fede cristiana, ma anche di altre esperienze religiose e spirituali, fondate su una dimensione comunitaria che ora è inevitabilmente assente.

IN AMBITO CATTOLICO il dibattito è aperto. Ha cominciato il priore di Bose, Enzo Bianchi, con un tweet datato 29 febbraio, quando le misure restrittive erano in vigore solo al nord Italia: «Ma siamo sicuri che la Chiesa adottando, contro il possibile contagio, misure che impediscono liturgie, preghiere e addirittura funerali partecipati dalla comunità, sia solidale con chi soffre, ha paura e cerca consolazione? Un cristiano non sospende la liturgia!». Gli ha fatto eco, pochi giorni dopo (2 marzo), il gesuita Bartolomeo Sorge, già direttore della Civiltà Cattolica: «Perché vietare le messe se sull’altare c’è quel Gesù che guariva quanti lo toccavano?».

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Altri, invece, invitano a riscoprire il valore del «digiuno liturgico ed eucaristico», ovvero l’assenza o l’impossibilità di celebrare comunitariamente i misteri della fede. O ricordano il cristianesimo delle origini, povero e senza strutture organizzative e di potere, prima della svolta costantiniana e teodosiana, quando i cristiani pregavano e «spezzavano il pane» nelle case.

«Dio non è presente solo dentro una chiesa, sta soprattutto fuori dal tempio, quando ci si mette a servizio degli altri», spiega Alberto Maggi, monaco dell’ordine dei Servi di Maria, direttore del Centro studi biblici Giovanni Vannucci di Montefano, crocevia di incontri fra cattolici e laici che vogliono confrontarsi con la sacra scrittura «interpretata al servizio della giustizia, mai del potere».

Il Centro studi ha un canale su Youtube molto frequentato, attraverso il quale padre Maggi legge e spiega la Bibbia e i Vangeli. «Ma la messa in streaming proprio no, non la capisco. L’eucaristia è il momento centrale nella vita della comunità cristiana, va celebrata comunitariamente, con i fedeli presenti, non connessi. Del resto – prosegue – in molte aree del pianeta, penso all’Amazzonia, alcune comunità vedono il prete e celebrano la messa una volta l’anno se va bene. Forse per questo sono meno cristiani? Il tempo che stiamo vivendo può dare ai credenti la possibilità di riscoprire la presenza di Dio anche nella Scrittura. Perché per i cristiani Dio si fa pane e diventa nutrimento non solo nell’eucaristia, ma anche nella Parola. Allora meglio questo tipo di celebrazioni, magari nelle case, leggendo e meditando il Vangelo, spezzando il pane insieme».

«Cerchiamo di non trasformare lo schermo in un tabernacolo», ha detto al Foglio il sociologo Luca Diotallevi. È un’immagine che convince anche Maggi. «Il problema sono i preti – aggiunge – che sono cresciuti, educati e abituati al rito, per cui senza il rito si sentono persi, smarriti. Ora però, senza riti, può venire alla luce un altro significato della Pasqua. Il verbo ricorrente nella liturgia pasquale è “andare”, l’annuncio di Gesù risorto è “andate”. Allora, nonostante le restrizioni, può diventare una Pasqua dinamica, che non si esaurisce nei riti, una Pasqua dell’andare verso gli altri».

LA CELEBRAZIONE senza popolo è «una preghiera individuale del celebrante che, secondo la teologia cattolica, può diventare un grande momento di intercessione per coloro che vorrebbero partecipare ma non possono farlo», spiega Vito Mancuso, libero teologo e filosofo, autore di numerosi volumi (l’ultimo è La forza di Essere Migliori, Garzanti), non sempre apprezzati dalle gerarchie ecclesiastiche. «Certo è un’altra cosa rispetto ai banchetti rituali intorno ai quali è nata la comunità cristiana: i credenti si riunivano, mangiavano insieme e facevano memoria di Cristo morto e risorto. Viene meno la dimensione comunitaria, ma per un prete ha senso celebrare anche senza popolo: una presenza solitaria di fronte al mistero, come è stata in fondo, per secoli, la messa tridentina».

UNA DIMENSIONE individuale che, in questo tempo, potrebbe riscoprire ciascun singolo credente. «Non c’è nessuna religione che non abbia nel proprio codice genetico la dimensione comunitaria – aggiunge Mancuso -. Ma non c’è religione che non abbia anche una dimensione individuale. Alle celebrazioni comunitarie e ai riti, si affiancano anche insegnamenti di tipo opposto, come quello evangelico di Gesù: “Prega il Padre tuo nel segreto”. Questo segreto, questa cripta, è la nostra interiorità. La connessione con Dio è lo spirito, e questo attiene alla solitudine. Fare silenzio di fronte al cielo, ad una pianta, una pietra, una nuvola, diventa una forma di celebrazione dell’esserci. In realtà questa dovrebbe essere anche la finalità del rito: non riempire le chiese e organizzare processioni, quello è ritualismo; ma trasformare l’anima del singolo, la coscienza, l’interiorità, che entra in comunione con il divino. Un divino che si può pensare come Signore Gesù, come Spirito, ma anche in altri modi e in altre forme».

E le celebrazioni nelle case? «Molti già lo fanno: si raccolgono, leggono una pagina di Vangelo, spezzano il pane vero. La Chiesa dovrebbe incoraggiarle, ma il monopolio clericale, quando sente queste cose, reagisce in maniera aggressiva e spesso le reprime sul nascere perché viene meno il monopolio. Eppure questa è stata l’esperienza dei cristiani nei regimi comunisti dove non si poteva celebrare l’eucaristia e la dimensione quotidiana di tante comunità in molte parti del mondo dove non ci sono né preti né messe. Stiamo attraversando un tempo che, se ben interpretato, può diventare propizio per scoprire queste nuove dimensioni e forme».