«Il sacro è il reale per eccellenza». L’autore di questa celebre e paradossale affermazione è Mircea Eliade (Bucarest 1907-Chicago 1986), il grande filosofo, antropologo, studioso delle religioni che in opere come Il sacro e il profano e Storia delle credenze e delle idee religiose ha mostrato come dalla scoperta del sacro dipenda il significato dell’esperienza e quindi il valore di realtà attribuibile ai fenomeni e alle relazioni. Nelle civiltà arcaiche – osserva Eliade – il sacro permette di riconoscere un valore alle manifestazioni del reale, dotandole di senso e verità. Una tale concezione può essere estesa anche alla società contemporanea: il sacro, in questo caso, ha una funzione di discrimine e reagente, che indica nell’esperienza realmente significativa un’alternativa alle meccaniche alienanti del lavoro e del consumo. In tal senso, come scandalo (‘pietra d’inciampo’) e apparente contraddizione, la realtà del sacro è un principio fondamentale anche nella poetica di Pasolini, studiata sotto questa luce nel saggio di Caterina Verbaro, Pasolini. Nel recinto del sacro (Giulio Perrone Editore, pp. 239, euro 16,00). Verbaro, studiosa tra l’altro di Lorenzo Calogero, Gadda e Svevo, mette al centro di questo suo ultimo libro la «relazione, mutevole ma salda, che poesia e sacro intrattengono nell’opera e nell’esperienza pasoliniana, fin quasi a una totale identificazione tra i due concetti». Proprio Eliade e Auerbach sono due delle autorità cui si fa ricorso per mettere a punto la prospettiva di analisi.
Alla base c’è un’idea di ‘poesia’ non legata necessariamente alla sola forma versificata: non un genere, dunque, ma piuttosto un modo che si esprime ad esempio nella teorizzazione pasoliniana di un «cinema di poesia». È così che Verbaro riesce a cogliere, anche dopo la relativa perdita d’importanza del genere poetico nell’opera pasoliniana, la persistenza della poesia come «modalità di relazione col reale» e «stile conoscitivo». Sul piano critico, si ottiene perciò una convincente rivalutazione dell’unità di fondo delle scritture pasoliniane e una valutazione del sacro come prospettiva che attraversa diversi generi.
Ma su quale principio si fonda la relazione tra poesia e sacro? Sulla metastoricità, anzi su ciò che Pasolini stesso ha definito, in Empirismo eretico, il «ralenti metastorico», cioè una visione ciclica del tempo prevalente su un’idea lineare, cronologica. È questo principio – osserva Verbaro nel primo capitolo (Dalle terzine al magma, Vicissitudini della forma poetica) – che induce Pasolini a rifarsi a modelli metrici antichi (la terzina appunto), come primo passo verso un’elaborazione della poesia quale linguaggio metastorico, forma assoluta che si rinnova nel presente non adeguandovisi ma opponendo resistenza. Più tardi, saranno proprio il cinema (al centro di tutta la prima parte del libro di Verbaro) e in particolare il montaggio a rimettere in discussione l’organizzazione formale del testo, anche di quello poetico: «Il montaggio acquista nel testo pasoliniano la medesima funzione di modulazione testuale che è propria della metrica, assurgendo così a criterio strutturale e organizzativo basilare del testo».
L’assetto dell’opera poetica (tale, per Pasolini, anche in assenza dei requisiti formali canonici) si fa aperto e relazionale, e perciò meglio disposto ad accogliere la rivelazione di un sacro che non ha solo una consistenza tematica, ma che si compie anche attraverso le forme ibride: questo è appunto il titolo della seconda parte del libro, in cui Verbaro illustra il «paradigma dell’ibridazione» nell’ultimo Pasolini. «Lo stesso genere letterario diventa infatti luogo di ibridazione: Pasolini è stato in Italia il primo e più incisivo contaminatore di scritture e codici espressivi, anticipatore di quel modello formale del bricolage che diventerà una delle modalità di scrittura più tipiche della cultura postmodernista». Nella produzione di Pasolini, il testo ibrido per eccellenza, quello cioè basato sul montaggio e non sull’adesione a moduli formali predeterminati, è Petrolio, di cui Verbaro offre una lettura nel capitolo finale, imperniato sul rapporto tra la storia e il sacro. In accordo con una vitale tradizione di studi, Verbaro può partire da un’osservazione di natura storico-culturale (cioè il passaggio di Pasolini dal modernismo al postmoderno, culminante in Petrolio) per proiettare l’autore sullo sfondo delle grandi questioni che interessano il pensiero critico contemporaneo e la sua collocazione nel campo dei saperi: «La lezione di Pasolini può essere preziosa non solo per aiutarci a situare storicamente l’origine della crisi dell’umanesimo contemporaneo, che dovrà sempre trovare un punto di conciliazione tra le antitesi dell’identità e dell’ibridazione ed elaborare un concetto nuovo e più fluido di identità».
‘Ibrido’, insieme a ‘sacro’, è perciò la parola-chiave del libro; anzi, i due concetti vi appaiono reciprocamente implicati, l’uno è necessario per comprendere l’altro. Il sacro pasoliniano risalta infatti nella smarginatura, nei luoghi d’incrocio, situati nella geografia reale degli scenari rappresentati oppure in quella metaforica delle configurazioni testuali. In questo senso, il sacro segna il punto di crisi e di passaggio tra arcaico e moderno, tra natura e città, tra il tugurio e il grattacielo. È così che il concetto può entrare in rapporto con le riflessioni e con le allegorie ecologiche che caratterizzano l’opera di Pasolini fino ai suoi anni estremi; potremmo forse dire, cioè, che la manifestazione del sacro è l’opposto della cosiddetta mutazione o rivoluzione antropologica, quel processo di omologazione socio-culturale che Pasolini denuncerà negli Scritti corsari degli anni settanta. Tra i meriti del libro di Verbaro c’è quello di mostrare che una tale presa di posizione è l’esito di un lungo processo, che nasce nella poesia come genere e sfocia, attraverso una serie di snodi e passaggi storici e stilistici, nella poesia come modo e chiave di lettura del reale.