Chissà se non fosse stato ucciso cosa avrebbe pensato degli anni a venire Pier Paolo Pasolini, cosa avrebbe scritto, se si sarebbe scagliato con foga contro gli smartphone così come ci mostra in una visione (di particolare bruttezza) David Grieco nel suo film. Siamo nel campo dei possibili, di quell’onirico che almeno al cinema permette molte variazioni come spiegava Orson Welles a un Henri Janglom in difficoltà (nel bel A pranzo con Orson, Adelphi) consiglio che in questo caso non appare preso in considerazione. Pasolini fustigatore della sua realtà, i giorni italiani del 1975 che precedono la sua morte, si scaglia intanto contro i culi in mostra sui manifesti che pubblicizzano dei nuovi jeans: Jesus, naturalmente.

Ma del poeta, dello scrittore, dell’intellettuale La macchinazione – in sala il 24 marzo – dice poco, anzi a chi non conosce Pasolini, la sua opera, i suoi scritti, i suoi film quasi nulla. Così come dice poco dell’Italia che lo ammazzò. Tutto si concentra infatti nel dimostrare la «macchinazione» del titolo, seguendo la necessità di illuminare i punti oscuri che ancora circondano la morte dello scrittore contrapponendo alle versioni ufficiali un’altra «verità» più scomoda e spinosa.

L’ipotesi che Grieco sposa è quella del «delitto complessamente politico» come lo definiscono in un articolo – su Micomega nel 2005 – Gianni Borgna e Carlo Lucarelli, un agguato cioè premeditato in cui Pino Pelosi, il ragazzo che si addosserà la colpa del delitto appare come una pedina «innocente» suo malgrado costretto a tacere sotto minaccia di morte per sé e la famiglia. Dietro questa operazione ci sono i poteri forti, economici e politici preoccupati dal libro che Pasolini stava scrivendo in quel periodo, Petrolio, uscito postumo, e dall’inchiesta sul ruolo nella corruzione politica italiana di Eugenio Cefis, presidente della Montedison, tra i fondatori della P2, sospettato di essere coinvolto nella morte di Enrico Mattei di cui aveva preso il posto alla presidenza dell’Eni. Un’ Italia di trame nere, politica e criminalità organizzata, servizi deviati, poliziotti conniventi, magistrati corrotti, onorevoli mafiosi tutti uniti e tutti complici in questa morte, tutti responsabili ad armare le mani che massacrano lo scrittore sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia la notte del 1 novembre 1975. Colpevole, Pasolini, di essere una voce scomoda e scandalosa – in quei giorni stava anche montando Salò o le 120 giornate di Sodona. Cefis che in Petrolio diventa Aldo Troya – e nel film di Grieco l’ombra si allunga fino quasi a lambire la figura di Berlusconi – significa interessi economici del grande capitale, politica estera strategia della tensione interna, bombe nelle piazze e sui treni.

Grieco Pasolini – interpretato da Massimo Ranieri – lo conosceva bene, era amico di famiglia, lo aveva freqeuntato da ragazzino, è stato suo assistente sul set di Medea e da giornalista dell’Unità era il suo interlocutore privilegiato per fare arrivare come dice lui stesso «domande e messaggi» a Berlinguer». Nel film mescola interni familiari, l’appartamento semplice che Pasolini divide con la madre (Milena Vukotic) a cui lo lega una dolce intimità, la confidenza di parlare dei suoi «ragazzetti» – «lo ami, ti ama» chiede la donna di Pelosi) e di aiutarlo nella tintura dei capelli. E ipotesi, incontri forse mai avvenuti come quello con Giorgio Steimetz, pseudonimo per l’autore di un libro, Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, subito sparito dalla circolazione che è la fonte principale di Petrolio – anzi Pasolini ne utilizza interi passaggi. Complotti di palazzo, incontri tra onorevoli e criminali, gli accattone sottoproletari di un tempo che fanno il salto e mettono su il vestito da gangster, pure se il loro mito è il Volonté di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

Il giorno è il lavoro chiuso nel suo studio, le telefonate con Moravia a cui parla del libro a cui sta lavorando – «si chiama Petrolio non so ancora cosa sia … », gli incontri fugaci in una Roma pullulante di spie con le sue fonti. Le notti sono invece le corse sull’Alfa e i ragazzetti, Pino Pelosi, anche lui un giovane di quel sottoproletariato che Pasolini amava, e che aveva raccontato dandogli una voce e un immaginario. Innocente anche se ancora per poco, dice del ragazzo l’uomo. Un po’ marchetta come gli altri amici, come quegli altri «ragazzi di vita» che lo scrive lo stesso Pasolini in Petrolio: «Se erano diventati così, voleva dire che essi avevano la possibilità di diventarlo: la loro degradazione dunque degradava anche il loro passato (che dunque era tutto un inganno). Quei giovani e ragazzi avrebbero pagato la loro degradazione col sangue». Risucchiati dal consumismo, dalla voglia dei soldi tanti e facili, la testa che gira per una bella macchina più che per una donna. Partitelle al biliardo, scommesse, la città che cambia e alza la posta. C’è la banda della Magliana che si lì a poco prenderà in mano il territorio, in perfetto stile Romanzo criminale (la serie).

Un giorno spariscono i negativi di Salò. Sono stati loro, o i servizi, o i fascisti che si infilano nelle manifestazioni e tirano loro le molotov a sé stessi incantando i ragazzi in piazza?

Pasolini al giornalista francese dice che per i figli degli operai è meglio non andare a scuola dove gli insegnano solo a diventare dei piccolo borghese. Eppure quel ragazzo figlio di operai con difetto di pronuncia e mal di testa a grappolo – e mica poteva essere come gli altri – gli dice mentre magia al Biondo Tevere con l’ignorantissimo Pelosi che se non ci fosse stata la scuola lui non avrebbe vissuto.

Sulla necessità che Grieco pone come punto di partenza del suo film nulla da eccepire. Quello che ci si chiede però è perché questa necessità decide di mettere da parte il cinema prima di tutto, punteggiando questo film – come se il soggetto fosse bastante a sé – di primi piani di occhi, la musica che parte a bomba nel momenti topici. Parti in bianco e nero negativo di «verità» vintage, e l’assoluta mancanza di sfaccettature nella personalità di Pasolini stesso, affidato a scarne frasi calate dall’alto – e anche parecchio irritanti, certo di sé dice che è un provocatore ma questo da solo non basta – e del suo universo poetico.

Grieco ha molto polemizzato con il Pasolini di Abel Ferrara il quale invece ha scelto di evitare il complotto nella sua ricostruzione, accusandolo di utilizzare l’omosessualità dello scrittore per fare scandalo. Questo qui non c’è, marchette notturne a parte.

Eppure rendere pubblica l’omosessualità nell’Italia di quegli anni, sgradita alla democrazia cristiana ma anche al pci, era un gesto politico forte. Incredibilmente forte come mettere al centro il corpo dei movimenti, quello femminista in testa, che appartiene a quegli anni. Pensiamo a Rabin the Last Day, ripercorrendo a distanza di vent’anni l’omicidio del premier israeliano, Gitai non cerca un complotto, non sono le mani di Netahnyau o dei religiosi a avere armato il ragazzo che ha sparato ma sono loro a avere creato una violenza che ha reso ciò possibile. Lo stesso è quello che circonda Pasolini, il clima di censura irrespirabile – l’unione tra le pellicole di Salò e di Ultimo tango bruciato dalla censura la capiscono oggi purtroppo in pochi ma il film di Bertolucci in Italia venne messo al rogo – di attacco moralista e di una repressione violenta.

Poi certo ci sono interrogativi aperti e connivenze ma Pasolini sembrava infastidire più per la sua figura complessiva – come affiora nel film di Ferrara che nella sua libertà appare molto più politico di questo – che per un’ unica opera. Ed è questa zona che forse l’immaginario nella distanza dovrebbe indagare anche perché è sempre attuale mentre il complotto finisce per dire quanto ci si aspetta e persino di vuole vedere. Musica dei Pink Floyd parafrasando dei bei virus spiazzanti italiani di quella stessa epoca più o meno messi all’angolo nel tempo a venire. Ma questa è un’altra storia.