Pubblicato 9 anni faEdizione del 27 giugno 2015
Ero stato stimolato all’analisi dei film dai saggi di Leo Spitzer ed ero stato introdotto alla semiologia da Galvano Della Volpe e dalla sua Critica del gusto (1960). La lettura di Christian Metz,in particolare del suo saggio Cinéma: langue ou langage? (“Communications, n.4, 1964), mi aveva convinto della possibilità di un’analisi scientifica dei film con i metodi derivati dalla semiologia: un antidoto, per così dire al soggettivismo (alla critica delle “impressioni” per quanto raffinate), che poteva rendere aleatorie certe mie (per quei tempi) azzardate valutazioni; e un complemento se non altro tecnico alle analisi testuali.
Ero stato preavvisato da Bernardo Bertolucci, intervistato con entusiasmo dopo aver visto Prima della rivoluzione, che Pasolini stava preparando per la Mostra di Pesaro (giugno 1965) un intervento che aveva a che fare con i problemi che allora cominciavano a interessarmi. Credo di aver in effetti contattato Pasolini per la prima volta proprio a Pesaro, durante il convegno “Critica e nuovo cinema” che aprì col suo intervento, divenuto famosissimo, il “cinema di poesia” e di avergli parlato del saggio di Metz, che mi sembrava in linea con le sue intuizioni. Fatto sta che poco dopo, con Jean-Claude Biette andammo a casa sua,in via Eufrate all’euro per tradurgli Metz. Da allora ho avuto con Pasolini, per alcuni anni, un rapporto intellettuale assai stretto. A metà del 1966, rotti i ponti per dissensi ideologici con “Filmcritica” fondai con altri transfughi dalla rivista di Edoardo Bruno il trimestrale “Cinema e Film” il cui primo numero porta la data inverno 1966-67.Pasolini mi (ci) fu di molto aiuto.Per cominciare, in attesa della nuova testata,ci offrì lo spazio idi “Nuovi Argomenti” (n.s. n.2,aprile-giugno 1966) per pubblicare le nostre recensioni dei filmasti a Pesaro in giugno; quindi scelse il titolo fra una rosa che gli sottoposi;ma soprattutto propose al suo editore,Garzanti, di distribuirla (nelle librerie), il che fu fondamentale e concessa di sorprendermi: dovemmo solo pagare noi il primo numero, poi ci arrivavano da Garzanti i soldi del preacquisto di 800 copie (su 1200 stampate, mi pare) che servivano a pagare lespesedi tipografia del numero successivo (cui si aggiungevano qualche abbonamento e scarse pubblicità). Una situazione mercantesca! Inoltre Pasolini presentò nella sede romana di Garzanti assieme a Bernardo Bertolucci, il primo numero agli inizi del 1967. Quanto ai suoi contributi riscrisse completamente un’intervista che gli avevamo fatto io e Faccini, che apre il primo numero col titolo Dialogo I (forse perché, nelle nostre intenzioni, altri avrebbero dovuti seguire).Poi ci concesse alcuni inediti. Inoltre pubblicammo – ma questo non è un inedito – col titolo Estratto dallo schema grammaticale di Pasolini, un brano del suo Per una definizione dello stile – La lingua scritta dell’azione (n.2,primavera 1967),cioè della sua relazione al convegno di Pesaro del 1966, ” Per una nuova coscienza critica del linguaggio cinematografico” ( dove incontrò sia Metz che Roland Barthes): è questo il saggio che prende l’avvio da quello di Metz che con Biette gli avevo tradotto a voce mesi prima.
Dalla familiarità “semiologia” con Pasolini nacque anche l’idea di avviare per Garzanti una collanadi libri che Pasolini intitolò “Laboratorio”:diretta da lui, curata da me. Le trattative con Garzanti cominciarono nel 1966 (anche seppi i volumi attesero un bello’ prima di uscire). Il primo libro fu I formalisti russi nel cinema nel 1971, rieccito nel 1979. Proposi quindi, in accordo con Pasolini, gli scritti di Jean-Luc Godard (Il cinema è il cinema, 1971) con una premessa di Pasolini, rieccitato con aggiunte nel 1981); di Metz (Semiologia del cinema. Saggi sulla significazione del cinema, 1972, rieccitato nel 1980); e di Bain (Che cos’è il cinema?, 1973, più volte rieccitato).
Successivamente, al livello di tracce ufficiali, c’è solo un’intervista che feci a Pasolini al momento di Teorema,nell’autunno inverno 1968-69, probabilmente per “Cinema & Film” che però nel frattempo avevamo deciso di chiudere,venne pubblicata molti anni dopo da “La Cosa vista” la rivista allora diretta da Sergio Germani.
Memoria
Pasolini era una persona dolcissima e generosissima. Si può immaginare che un ragazzo non ancora venticinquenne come me potesse essere intimidito da un artista già molto noto. Timido lo ero, ma la mediazione del cinema mi dava coraggio. Come Rossellini, Pasolini favoriva il dialogo, mettendo a suo agio l’interlocutore. Non c’erano distanze percepibili. E inoltre, nei primi incontri, avevo dalla mia il fatto che lo introducevo a qualcosa che io conoscevo e lui no. Invidiabile privilegio. Non era quindi la mia ammirazione peri suoi film a favorirmi, ma il mio interesse per la teoria.
Di fatto, devo ammettere che il primo suo film di cui mi innamorai davvero fu Uccellacci e uccellini. Ricordo di averlo visto in copia-lavoro nella saletta un laboratorio di sviluppo e stampa ai primi del 1966 e che Pasolini mi chiese se aveva fatto bene a tagliare alcune parti (che mi riassunse a voce); gli risposi che mi pareva che il film andasse benissimo così, in quella forma “imperfetta”. (Avrà chiesto,suppongo, il parere a molti altri: ma che lo chiedesse anche a me è segno della sua disponibilità e della sua generosità). Prima, avevo scritto solo una recensione di Comizi d’amore (Cahiers du Cinéma, n. 169,agosto 1965, riproposta inFilmcritica n.161, ottobre 1965),in cui – sospetto per qualcosa che Pasolini mi aveva suggerito più che per mia autonoma intuizione- parlavo di “film-saggio” (…): il saggio di un autore sul proprio stile cinematografico, anticipando quindi di molto le mie riflessioni degli anni ’90 su questa particolare possibilità delinea “post documentaristico”;dopo avrei scritto su Uccellacci e uccellini (e in parte su Edipo re) nel paragrafo Pasolini e Godard ovvero la difficoltà di essere del saggio Verso un cinema di risposte? (Cinema & film n. 4,autunno 1967) prescegliendolo come uno degli esempi di un ipotetico “cinema dell’armonia”.
Ci rimasi male quando, con GianVittorio Baldi (con cui allora lavoravo) gli proposi di sottoscrivere il “manifesto” di Rossellini (“Vogliamo elaborare spettacoli e programmi che possano aiutare l’uomo a cogliere gli orizzonti reali del mondo”, al quale oppose un fiero dissenso ideologico; il che non impedì a Rossellini, nel 1966 a Cannes, di prendere pubblicamente le difese di Uccellacci e uccellini- che dati i tempi ne aveva bisogno – e proprio ricollegandolo ad alcuni temi esposti nel manifesto: il cinema come strumento di “orientamento nel tumulto del progresso incalzante: (…) un orientamento intelligente nell’immensità del tempo e della storia”.
Ricordo anche quando mi chiese se avrebbe dovuto o no accettare la proposta di dirigere un western all’italiana(doveva essere l’epoca in cui aveva interpretato un ruolo di Requiescant di Carlo Lizzani, uscito nel 1967). Mi sembrava assai improbabile e glielo dissi.
Ricordo ancora di quando scavalcammo il muro di cinta – lui agile, io impacciato – del Centro Sperimentale di cinematografia occupato (era il marzo del 1967, assai prima del ’68!) per tenere di notte, in moviola, una lezione “cinema di poesia” (dove il film “di prosa” messo a contrasto di non ricordo che film moderno “di poesia” era – “Un qualsiasi film americano” aveva suggerito Pasolini e a me e a Ponzi che avevamo organizzato l’impresa – Gideon’s Day di John Ford, cioè 24 ore a Scotland Yard nella versione, in bianco e nero – l’originale eraacolori- uscita in Italia…)
Questi e altri incontri, soprattutto a via Eufrate, mi mettevano dinanzi a un uomo che si interrogava e che interrogava. Niente maestro e allievo, ma dialogo. Un paio di voltel’ho anche visto girare: nel 1966 in esterni su una spiaggia di Ostia o Fiumicino per La Terra vista dalla Luna; nel1967 negli studi DeLaurentiis, credo per Edipo re; e lo ricordo calmo, paziente (come del resto Rossellini); disposto a lasciarsi “influenzare” dalla realtà di un set come dalle persone che accoglieva nella sua cerchia.
Negli anni successivi ho avuto solo rapporti sporadici con Pasolini, forse anche perché i suoi ultimi film “in costume” mi convincevano meno dei precedenti e non mi sembrava aver nulla da dirgli o da chiedegli.
Fui folgorato, come tutti, apprendendone la morte violenta. Ero assieme a Paolo Brunatto: ci stavamo proiettando in privato un lunghissimo Super-8 di Tonino De Bernardi, mostrato quel giorno al Filmstudio 70, La cerchia magica. Lo interrompemmo: troppo forte l’emozione. Mi confusi nella folla del funerale a Campo de’ Fiori e ascoltai la vibrante orazione Alberto Moravia.Pochi giorni dopo visi Salò e le 120 giornate di Sodoma. Ho scritto un ricordo di quell’esperienza su richiesta di Flavio De Bernardinis, non mi resta che trascriverlo:
Nella palazzina all’euro, sede del produttore Grimaldi, ero stato invitato per una proiezione molto privata di Salò.Non erano certo le migliori condizioni per una visione “oggettiva”.Ne uscii sconvolto. Mi parve un film “indigeribile”_ “O con me o contro di me”, senza alternative, sembrava dire. Non potevo certo essere “contro”: troppe cose mi legavano a Pier Paolo, nonostante certi dubbi sui suoi film “in costume”. Ma essere davvero “con” voleva dire fare un esame di coscienza profondo, mettere in gioco se stessi. scegliere radicalmente, come radicale era il film.
Per un po’ l’ho “dimenticato” (ma non chi lo aveva fatto). E del resto in Italia il film era diventato, per le note vicende, invisibile. Anni dopo a Parigi, in occasione di una rassegna curata da Laura Betti, alla quale avevo contribuito (L’univers estéthique de Pasolini, 26 novembre-31 dicembre 1984) rividi “a freddo” Salò.Adesso potevo direcl necessario distacco: “Sì”. E quando mi si chiese di elencare i “10 migliori film del cinema italiano” (per il mensile “Bianco & Nero”) non esitai a includerlo ai primi posti.
Coda
Può anche darsi che abbia incrociato Laura Betti assieme Pasolini,manon ho ricordi precisi. So invece che mi ha telefonato attorno alla prima metàdegli anni 80 per coinvolgermi nel suo Fondo.Non nascondo – non sono certo stato il primo – di aver avuto con lei rapporti assai difficili: io mite, lei aggressiva (e segretamente indifesa9. Mah anche passato serate meravigliose in casa sua, dove le chiacchiere quotidiane si mescolavano (complice l’ottimo cibo) a considerazioni intellettuali alte. Ho cercato di resisterle, anche perché laminato:come persona, come attrice,come studiosa.Mi sono lasciato coinvolgere, un po’ passivamente nelConsiglio di amministrazione delFondo, per poi senza preavviso esserne escluso (man questo non ha avuto per me, né ha ormai,alcuna importanza)
Con Laura, senza che davvero se ne parlasse, ho ricevuto di riflesso l’immagine di Pasolini altrettanto “vero” uomo di quanto lei era “vera” donna”.Con persone tale livello non conta avere buoni rapporti,conta sentirsi spinti a dare il meglio di sé per casomai vedersi rifiutare.E’ la vita vissuta giorno per giorno come sfida oltre il limite.
(questo scritto prende lo spunto da un intervento alla giornata di studi Pasolini a Roma (ancora) oggi dell’Università di Roma Tor Vergata,Facoltà di Lettere e Filosofia, 8 novembre 2005)