«E noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà». Si devono al giovane Pasolini queste parole, inviate nell’agosto 1943 da Casarsa all’amico Luciano Serra. Trasudano lucidità di pensiero civile, passione pedagogica, febbrile voglia di fare. Con chiarezza esemplare si impegnano precocemente a delineare il compito immane, e insieme esaltante, cui a metà del secolo scorso era chiamata tutta una nuova generazione intellettuale, di cui Pasolini si sentiva e in effetti divenne l’alfiere.

DOPO L’UMILIAZIONE liberticida del ventennio fascista e ancora nel pieno di una guerra feroce, di cui tuttavia si poteva prevedere la conclusione, si trattava di ricucire un paese ridotto in macerie e di ricostruirlo non solo sul piano materiale, ma anche, o soprattutto, su quello etico, nei valori della coscienza democratica, e per un nuovo riscatto culturale.
In questa responsabilità collettiva, dunque, era fissata da Pasolini la funzione dell’intellettuale o anche dell’artista in sé, che così era sottratto alla separatezza solitaria della tradizionale «torre d’avorio» ed era invitato invece a sporcarsi le mani dentro la storia, in mezzo agli uomini, a contatto con le storture di una realtà sociale a cui porre rimedio anche con la sua guida. E non per nulla, nel suo teso programma giovanile del ’43, Pasolini rinunciava all’«io», che così prepotentemente si accampava nei versi di Poesie a Casarsa, e si annullava in un «noi» collettivo, come a marcare con quel pronome il manifesto di una generosa appartenenza generazionale di gruppo.

Del resto a quello sforzo, politico e culturale, Pasolini tenne sempre fede, anche quando l’Italia uscita dal dopoguerra sconfessò le speranze del reale cambiamento, conservando invece vischiosi privilegi di potere e di classe, imboccando con rapida accelerazione la strada dell’economia neocapitalistica, capace di appiattire mentalità e comportamenti sull’unico modello del consumo mercantile e infine marginalizzando via via lo scrittore-intellettuale nel recinto dell’irrilevanza sociale e nel solo settore dell’industria editoriale.
In gioventù, figlio del vento della Resistenza e, nella maturità, analista sconfortato ma non arreso della «Dopostoria» italiana, Pasolini non ha mai dismesso i panni dello scrittore «legislatore», per dirla alla Bauman: del maestro cioè che, con i suoi specifici strumenti umanistici, si sente e vuole essere guida e pungolo anticonforme per un uditorio di cui tenere sempre vigile la coscienza critica. Si spiega così anche l’impegno infaticabile di questo autore irripetibile nel campo della comunicazione e, in senso stretto, dell’intervento giornalistico.

Sulla stampa quotidiana e periodica del suo tempo, dagli anni della formazione bolognese e della gioventù friulana, giù giù fino agli implacabili scritti «corsari» sulle colonne del «Corriere della Sera», la sua fu una «firma» costante e anzi, sempre più dopo gli anni Sessanta, ammirata o vilipesa e denigrata. Ma Pasolini fu da subito consapevole che nella modernità l’efficacia del «sogno di una cosa» non può prescindere dal come e dal dove lo si trasmette e che dunque anche la stampa è il canale necessario per raggiungere e costruire un uditorio, prendere posizione sulle battaglie del momento, inventare nuove forme di argomentazione di scrittura.

SE A BOLOGNA PROGETTÒ con alcuni amici la rivista «Eredi», in Friuli si fece editore (si direbbe, anche direttore responsabile) dei cinque numeri degli «Stroligut», propose le sue riflessioni estetiche, linguistiche, pedagogiche e autonomistiche sulle testate locali, da militante comunista personalizzò la propaganda con originali manifesti murali. Firma d’autore, critica d’arte e letteraria, piglio militante, spirito di denuncia sono ingredienti che in varie miscele improntano lo stile giornalistico di Pasolini, sbrigliandosi anche in seguito in una miriade di espressioni: illuminanti reportage di viaggio, pionieristici docufilm d’inchiesta, affondi aggressivi portati dentro la cittadella nemica delle rotative borghesi.
Questo capitolo trasversale dell’operosità pasoliniana, pur così strategico e decisivo, non è stato finora argomento di una ricerca approfondita e sistematica da parte degli studi italiani, nonostante l’invito lanciato a suo tempo, tra i primi, da Mario Isnenghi.

 

SCHEDA

ll Centro Studi Pasolini di Casarsa della Delizia promuove un convegno su «Pasolini e il giornalismo» in due tappe. La prima, dedicata allo studio dell’impegno pasoliniano fino agli ’60, sarà aperta da Franco Contorbia, storico del giornalismo italiano; a seguire, interventi sul giovane Pasolini giornalista in Friuli, con i contributi di Stefano Casi, Elvio Guagnini, Rienzo Pellegrini e Gianfranco Ellero. Sabato 11, dalle ore 9, interventi sul polemismo pasoliniano in «Vie Nuove » e «Tempo» con relazioni di Anna Tonelli, Gian Carlo Ferretti e Massimo Raffaeli. Inoltre, a l teatro «Pasolini» di Casarsa, alle 20.45 di venerdì 10, Moni Ovadia, con la musica dal vivo di Maurizio Dehò e Nadio Marenco, sarà protagonista del reading «Io so», dagli Scritti corsari.