Non è un caso, credo, che quasi tutte le cose più interessanti su Pasolini, in questi anni, le abbiano scritte studiosi italiani sì, ma che lavorano fuori. Penso ai libri di Manuele Gragnolati, che ora è tra Berlino e Parigi (Amor che move, uscito dal Saggiatore nel 2013), o di Emanuela Patti, che lavora a Birmingham (Pasolini after Dante, Legenda 2016). Con numerate eccezioni, al suo nome più che un’opera si lega da noi – a partire dall’«atrocissimo fait divers» di Ostia, come lo definì Contini – un culto: un culto funebre, come quelli demartiniani che suscitavano il suo contrastato interesse. E che di lui ha fatto un «mito», come già nel 2005 doveva constatare Walter Siti: una vera e propria macchina mitologica – per dirla con Furio Jesi – che, dal fait divers in avanti (sintomatico che di PPP, nel paese degli anniversari, si celebri sempre la morte e mai la nascita), sempre più si alimenta di speculazioni, rivendicazioni, autoattribuzioni.
Le pagine di Evio Fachinelli
Non so se pensasse al cadavere ancora caldo di Pasolini (col quale invano aveva tentato di mettersi in relazione) Elvio Fachinelli, quando nel ’78 scriveva le pagine sferzanti di Cultura e necrofagia (raccolte da Dario Borso nell’antologia di suoi scritti politici Al cuore delle cose, DeriveApprodi 2016): come nei «gruppi arcaici», nella nostra cultura «un gruppo di morti-viventi» continua a «svolgere una funzione normativa». E in effetti non c’è morto vivente, ancora oggi, quanto Pasolini. Un vero zombi, ha scritto non senza esasperazione qualche anno fa Gian Maria Annovi: «da più parti e spesso a sproposito, in una specie di esercizio negromantico, una sorta di rito da santeria molto postmoderna, si parla a Pasolini, o lo si vorrebbe far parlare da morto come se fosse vivo: “Cosa direbbe oggi PPP?”». In altri termini, proprio Pasolini – che questo bon mot di Giorgio Pasquali aveva fatto suo in Uccellacci e uccellini – non riusciamo a mangiarlo «in salsa piccante», come invece va fatto coi «maestri» (e come invocava Marco Belpoliti, nel 2010, nel suo Pasolini in salsa piccante appunto), al fine di metabolizzarne davvero l’insegnamento. Non riusciamo ancora a nutrirci dell’opera di Pasolini, impegnati come siamo a divorare il suo corpo insepolto.
La condizione non solo geografica del fuori Annovi (nato a Reggio Emilia nel 1978, ma da più d’un decennio negli Stati Uniti; insegna ora a Los Angeles) l’ha trattata non solo come saggista ma soprattutto come autore, in libri che della nostra giovane poesia sono già piccoli classici, come Italics e La scolta (entrambi del 2013). La sua formazione si incentra su autori come Zanzotto e Rosselli (della quale ha tradotto Impromptu, Guernica Editions 2014), ma anche sui poeti della neoavanguardia (importante l’antologia di Antonio Porta, Piercing the Page, Otis Books-Seismicity 2012); sicché a qualcuno parrà sorprendente il suo interesse per Pasolini: ma solo da noi, appunto, dove perdurano steccati di più di mezzo secolo fa. Laddove naturale dovrebbe essere, viceversa, considerare quest’autore per quello che è e per il contesto in cui ha operato.
Il libro innovativo che gli ha dedicato Annovi, Pier Paolo Pasolini Performing Authorship (Columbia University Press, pp. 272, $ 60,00), fa esattamente questo: concentrandosi su gesti e movenze, fra anni sessanta e settanta, nei quali chi si era definito «una forza del passato» (ma anche «più moderno di ogni moderno») davvero ci appare in linea col suo tempo: non tanto con la letteratura contemporanea bensì con le sperimentazioni delle arti visive, del teatro, ovviamente del cinema. Proprio la sequenza della Ricotta in cui un regista (interpretato da Orson Welles, ma con la voce di Giorgio Bassani…) legge quei versi nel mettere in scena la passione di Cristo in uno squillante technicolor d’après Pontormo, è fra le più ambivalenti di Pasolini: tanto che, del suo cinema, è stata la più imitata (per lo più equivocandola), dai postmodernisti delle generazioni seguenti. A rendere esemplare l’atteggiamento di Pasolini per i postmoderni sono da un lato la pervasività della sua presenza fisica nell’opera, e dall’altro la sua passione per la componente originaria dell’esperienza e della cultura (al limite in declinazione «barbarica», fauve) commista alla più spregiudicata curiosità sperimentale (anche in senso tecnico, formalistico). È la sintesi di questi due estremi, sempre acrobatica e talora davvero forzata, a comporre il vettore del manierismo di Pasolini (che per lui, nei versi della Guinea, «è realismo»): unica possibile cifra unificante, seppure per definizione instabile, della sua traiettoria.
E sono proprio questi gli aspetti che le acuminate analisi testuali di Annovi mettono in luce. Nella produzione per la scena viene focalizzata la componente metateatrale di Calderón (e la sua «funzione Velázquez», con la ripresa delle Meninas in Che cosa sono le nuvole?); nel cinema di Pasolini oggi più studiato (i corto- e mediometraggi) il suo culto per le star in chiave «pop» (come Marilyn nella Rabbia – in parallelo all’uso che ne faceva un artista a Pasolini legato da mutuo, ambivalente interesse come Warhol –, ma tale è pure Welles nella Ricotta, e da un certo punto in avanti lo stesso Pasolini, certo…), ma anche la sua voice off, che evoca spettralmente il corpo dell’autore altrove incluso nella rappresentazione (l’allievo di Giotto nel Decameron e non solo); l’ossessione per l’autoritratto nella sua produzione pittorica (non un violon d’Ingres, bensì l’origine stessa di ogni sua pulsione figurativa e figurale), ma anche il suo sguardo ancora una volta ambivalente nei confronti dell’astrazione (messa in scena in un episodio di Teorema) e della performance: la partecipazione, negli ultimi mesi di vita, all’installazione di Fabio Mauri Intellettuale (che proiettava su Pasolini, sullo «schermo» della sua camicia bianca, le immagini del Vangelo secondo Matteo), e al servizio fotografico di Dino Pedriali alla Torre di Chia (nel quale il suo diviene un doppio corpo, spiato e insieme esposto, in una cornice di vetro come nell’amato Bacon), denotano la sempre più consapevole intenzione da parte di Pasolini di usare se stesso, in forma più o meno esplicitamente «spettrale», come tela e insieme pennello. Così nel meno incasellabile dei suoi libri, La Divina Mimesis, e nello stesso Petrolio: opere presentate dall’autore – al di là dell’effettiva compiutezza – come fallimenti, o residui, di una progettualità letteraria a quell’altezza diretta, ormai, oltre lo spazio tradizionale della pagina.
Elisabetta Benassi «Timecode»
Per questo, più degli scrittori paralizzati dalla liturgia, sono stati gli artisti visivi a guardare alla sua lezione. Ogni volta rischiando di sconciarla: ma solo così mettendosi nelle condizioni di metterla davvero a frutto. Il libro di Annovi è incorniciato da due delle opere a Pasolini dedicate, dal 2000 a oggi, da Elisabetta Benassi: che in Timecode porta a spasso in moto un body-double di PPP, così rifacendo una scena di Mamma Roma, e in Alfa Romeo GT Veloce 1975-2007 lo evoca in absentia, invece, mettendo in scena l’automobile suo feticcio, e insieme strumento del suo eccidio. Nel ’63 Warhol dichiarava di voler «essere una macchina»; Pasolini, troppo umano, non avrebbe mai detto qualcosa del genere. Eppure in una macchina, dopo la sua morte, è stato trasformato. Se «PPP» è il nome della Macchina mitologica che ha usurpato la sua opera, per fare ad essa ritorno si dovrà ricominciare, forse, da chi – con giusta crudeltà «concettuale» – ha provato a mangiarlo una buona volta in forma piccante. Rappresentandolo, appunto, come una macchina.