Leggendo Pasolini contro Pasolini di Nicola Mirenzi (Lindau, euro 14) ci si accorge subito che all’autore sarebbero bastate semplicemente le prime quattro pagine per condensare l’originalità della sua analisi e della sua ricerca, trasformando la pubblicazione in un pamphlet in salsa contemporanea. La breve introduzione, apprezzata mentre si respira a fondo per immergersi – in apnea – nella lettura dell’agile saggio, consegna un patrimonio di riflessioni che nulla hanno a che fare con l’affollata produzione editoriale che ha ingolfato il quarantennale dell’omicidio di Pasolini. «Pasolini è l’intellettuale più citato e meno letto d’Italia», sentenzia Mirenzi. Una frase che a modo suo dice tutto, raccontando di quella goffa gara che da sinistra e destra (dai giorni successivi alla sua morte fino a oggi) ha caratterizzato il recupero parziale del Pasolini-pensiero. Parziale perché di parte, parziale perché l’adattamento di una parola o di uno scritto dell’intellettuale friulano alle ragioni di questa o quella causa, di questa o quella bandiera politica, hanno trasformato la proverbiale imprevedibilità di Pasolini in una liturgia cristallizzata nello spazio di una frase e di poche lettere. Nulla di più lontano da quanto, in vita, Pasolini strillava nelle sue arringhe ad un popolo minorenne e a una città malata – per dirla con le celebri parole di Volonté. Le pagine di Mirenzi, che puntano il dito contro le operazioni di branding bipartisan, contro chi ha tentato di perimetrare le parole di Pasolini soffocando anni di altalene emozionali dell’autore in codici macchiettistici – sono pagine che urlano la necessaria necessità di una lettura materialistica di quella produzione letteraria, scevra cioè di quell’alone profetico che ha via via trasformato Pasolini nel pasolinismo, un oracolo buono per tutte le stagioni e al quale strappare solo risposte certe. Se allora si è capito l’invito che Mirenzi lancia da queste pagine, non ci si può fermare solo alla fattispecie Pasolini. La tendenza messa in luce nel testo, infatti, ci parla di un panorama politico incapace di livellare verso l’alto una produzione cultura e analitica ormai appiattita nella dozzinale quotidianità della politica italiana. La tendenza, soprattutto, a rincorrere autisticamente l’avversario sulle sue posizioni per accaparrarsi la fetta di consenso necessaria alla sopravvivenza, sacrificando la capacità di essere gli intellettuali di sé stessi (non esenti da errori, chiaramente) e girovagando alla ricerca di maîtres à penser cui affidare le chiavi delle proprie idee. Pensare senza farsi pensare, d’altronde, era una delle lezioni universali che Pasolini ci aveva lasciato in eredità. E forse, proprio per la sua disarmante semplicità, oggi è una delle sfumature più difficili da leggere tra quelle pagine che indagano solo l’omicidio Pasolini. «Sull’icona di Pasolini ciascuno proietta sé stesso: tutti si ritrovano in lui, ma nessuno lo vede più. Questo è il delitto». Difficile dimostrare il contrario.