«Oggi possiamo annunciare la fine della sedizione del 1396». Così ieri il generale Jafari, capo delle Guardie rivoluzionarie (Irgc) – riferendosi all’anno corrente del calendario persiano – dichiarava la fine delle proteste che da una settimana infiammano l’Iran. In effetti ieri, dopo sei giorni di manifestazioni, assalti a caserme e banche, spari della polizia sulla folla, 21 morti e 530 arresti, la tensione è scesa.

Ieri nelle piazze c’erano i sostenitori del governo, decine di migliaia di persone a Teheran, Qoz, Ahvaz, Kermanshah, sotto lo slogan «Leader, siamo pronti» e le immagini dell’Ayatollah Khamenei mescolato alle bandiere iraniane.

Nelle stesse ore oltreoceano il presidente Usa Trump in un tweet prometteva un vago «grande supporto al momento opportuno» e proseguiva nella narrativa offerta in questi giorni, calco fedele della sua visione anti-iraniana: l’ambasciatrice all’Onu Haley ha chiesto una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza, mentre la Casa bianca paventava nuove sanzioni alle Guardie rivoluzionarie.

All’amministrazione Usa non interessano le richieste delle piazze iraniane, sì variegate, ma per lo più dirette non al cambio di regime ma alla difficile situazione economica, in buona parte dovuta alle sanzioni che da anni stritolano l’economia iraniana e impediscono di concretizzare i contratti siglati dopo l’accordo sul nucleare del 2015.

Ma dare per «sconfitta» la protesta, come fa Jafari, è peccare di fretta: i conflitti socio-economici che attraversano la complessa società iraniana restano. Lo sanno nelle zone rurali e più periferiche, cuore della protesta, e nelle grandi città. E lo sa il presidente Rouhani che alle piazze si è rivolto promettendo ascolto, lui che ha vinto il secondo mandato sulla spinta dell’entusiasmo per l’apertura dell’Iran al mondo, alle speranze di crescita diffusa e redistribuzione della ricchezza.

Quel miglioramento non c’è stato a causa del congelamento degli investimenti delle aziende straniere, preoccupate dalle sanzioni o fisicamente impossibilitare a trasferire denaro nel paese, e il tasso di occupazione non è salito. Sono invece saliti costo della vita e tagli ai sussidi.

Rouhani è consapevole della necessità impellente di intervenire, mani legate o meno. Tra i lacci c’è l’oligopolio economico gestito dalle Guardie rivoluzionarie, prima del 2015 fondamentale a tenere in piedi l’isolata economia iraniana ma oggi concreto ostacolo al suo sviluppo.

Già nel 2013, appena eletto, Rouhani chiese ai vertici delle Irgc di limitare la presenza in economia per fare spazio al settore privato. E lo scorso settembre ha preso di mira una decina di figure di spicco delle Irgc, facendole arrestare dai servizi degli stessi pasdaran, da lui convinti del pericolo che corruzione diffusa e clientelismo rappresentano per la tenuta della repubblica.
Ma il sistema economico di cui sono a capo resta tentacolare, una galassia di imprese semi-statali che, spiegava l’analista Bijan Khajehpur su al Monitor ad agosto, è sorta alla fine degli anni ’80, dopo la guerra con l’Iraq di Saddam: «L’allora presidente Rafsanjani chiese alle Irgc di spostarsi verso la ricostruzione del paese. Le Irgc hanno giustificato l’espansione delle loro attività dicendo che stavano entrando in settori economici troppo complessi per il settore privato, per aiutare il governo».

Ma le mani sono state infilate ovunque (sebbene, sottolinea Khajehpur, non esistano dati certi: impossibile individuare, dietro prestanome o scatole cinesi, i reali proprietari delle aziende semi-statali), nei settori strategici quali infrastrutture e industrie pesanti – dove la parte del leone la fa la compagnia Khatam-al Anbiya, 1,5 milioni di dipendenti, responsabile della costruzione di ospedali, moschee, aeroporti, oleodotti – come in agricoltura, turismo, finanza, telecomunicazioni, prodotti alimentari, greggio, club calcistici.

Un circolo vizioso: le Irgc si espandono con appalti e sostegno politico, che a loro volta fanno lievitare l’oligopolio. Secondo le stime, l’economia dei pasdaran impatta nel Pil per un 40%. Una realtà affatto trasparente che fa temere agli investitori stranieri di finire, senza saperlo, nella rete delle sanzioni alle Irgc e che Rouhani considera ostacolo alla crescita. Per questo ne ha aumentato il budget militare, per far tornare i pasdaran alle origini, esclusiva forza militare e anti-terrorismo e non più opaco impero economico.