«E Seneca dice però che nella morte d’Augusto imperadore vide in alto una palla di fuoco. E in Fiorenza nel principio di sua distruzione, veduta fu nell’aere, in figura d’una croce, grande quantità di questi vapori seguaci della stella di Marte»: sono parole di Dante, che nel Convivio ricorda l’apparizione della Cometa di Halley a Firenze nel 1301, presagio di sventure e, per il Poeta, dell’imminente esilio. Più di seicento anni dopo, nel 1909, la stella tornava visibile nei cieli italiani. Incontrava allora, tra gli spettatori rivolti al suo passaggio, un altro osservatore d’eccezione: Giovanni Pascoli, che il 9 gennaio 1910 consegnava al «Marzocco» l’ode Alla cometa di Halley, uno dei più suggestivi omaggi moderni all’autore della Divina Commedia, un «peregrino del mistero».
Proprio attorno a questa parola, mistero, ruota l’operazione esegetica del Pascoli dantista, che alla Commedia dedicò tre volumi, oggi riproposti in coincidenza con il settecentenario dantesco: Minerva oscura, Sotto il velame, La mirabile visione (Nino Aragno Editore, pp. 1144, € 70,00). Si tratta di un’opera monumentale, frutto di un corpo a corpo decennale col poema, che avrebbe dovuto trovare compimento in un quarto volume: La poesia del mistero di Dante, appunto. A causa delle numerose polemiche che coinvolsero i lavori dopo la pubblicazione del primo tomo nel 1898 (la discussione intorno a Sotto il velame, 1900, venne semplicemente rimandata e l’uscita della Mirabile visione, 1902, passò sotto silenzio al Bullettino della Società Dantesca), la tetralogia finì col rimanere incompiuta. La delusione che segue l’entusiasmo della stesura è, per Pascoli, immensa: proprio quei volumi che per lui erano stati un «lavoro segreto e prediletto», meditato «per giorni interi» (così il poeta nella lettera al senatore Gaspare Finali che introduce Minerva oscura), finivano con l’essere «derisi e depressi, oltraggiati e calunniati» dai lettori. Tuttavia, aggiungeva ancora Pascoli nella Prefazione ai Poemi conviviali (1904), «essi (…) vivranno. Io morrò, quelli no. Così credo, così so; la mia tomba non sarà silenziosa. Il Genio di nostra gente, Dante, la additerà ai suoi figli».
Benedetto Croce, che avrebbe stroncato i volumi pascoliani, commentava l’immodestia del passaggio attribuendo al suo autore una «virtù che si nasconde ma se cupit ante videri»: che ci tiene, prima, a mettersi in mostra; tuttavia non si può certo dar torto a Pascoli quando intuisce che quelle sue pagine dantesche sarebbero arrivate ai posteri. Ci giungono, tra l’altro, profondamente rinnovate: il lavoro sulla Commedia, se considerato nel metodo oltre che nei contenuti, può diventare una specola privilegiata per guardare al modo in cui Pascoli legge la storia della letteratura e i suoi testi.
Il suo Dante è il poeta che «volontariamente eclissa» e nasconde la propria dottrina «sotto il velame dei versi»: l’operazione pascoliana consiste dunque nello smontare l’enorme edificio dantesco attraverso la decifrazione dei suoi simboli e allegorie, per scoprire le corrispondenze segrete che regolano la macchina della Commedia e che ne garantiscono l’unità strutturale (sin dalle premesse teoriche si coglie insomma la matrice simbolista di queste pagine, la loro parentela con la Francia fin de siècle).
In ragione di questo proposito, in Minerva oscura Pascoli riporta a simmetria l’apparente divario tra Inferno e Purgatorio sulla base della partizione delle colpe, equivalente e speculare nelle due cantiche: «il Purgatorio riproduca, come monte può riprodurre baratro, l’Inferno. Abbia sette scaglioni per i sette peccati nello stesso ordine dell’Inferno». Il procedimento simmetrico a cui il monte e il baratro obbediscono sarebbe poi confermato dalla corrispondenza del Castello degli spiriti magni con la Valletta purgatoriale; il racconto della scoperta trasmette il fervente entusiasmo dell’esegeta quando gli pare di approssimarsi alla «vera sentenza», al «Polo del mondo dantesco»: «tutto diceva a me che con la necessità di stare fuor della porta del Purgatorio per il tempo che vissero (…) si puniva in quelle anime un’accidia (…) analoga a quella che impediva il passaggio d’Acheronte agli sciagurati dell’Antinferno e il passaggio di Stige alle genti fangose dell’Antidite. (…) La valle insomma dell’Antipurgatorio mi condusse al nobile Castello del Limbo. E allora sentii come il ventare nuovo e ininterrotto della terra lontana, che volevo scoprire; e per molti segni capii che tra poco ella sarebbe stata in vista dell’ardito navigatore. E l’oscura Minerva mi dimostrò un lampeggiar di riso».
L’originalità del lavoro scaturisce proprio da questa (strana) coesistenza di un’impostazione positivistica (l’analisi) con l’«evanescente misticismo decadentistico» che permea altre e ben note pagine pascoliane: quelle dedicate al Fanciullino, «sempre disposto a scoprire “nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose”» (l’intuizione si deve a Giovanni Getto ed è formulata in Pascoli dantista, un saggio che a sua volta è ormai un classico della nostra critica letteraria e che opportunamente accompagna la riedizione dei volumi pascoliani). È chiaro che Pascoli si riappropria fortemente dell’opera dantesca; il che, se da un lato gli costò l’ostilità della critica, dall’altro oggi testimonia anche lo spirito del tempo che ha visto maturare i volumi: negli anni dell’esplosione della cultura decadente Dante era ormai, di fatto, un nume tutelare.
Il senso profondo del poema consisterebbe, secondo la lettura pascoliana, nel passaggio dalla vita attiva alla vita contemplativa; l’intuizione è formulata sulla scorta del XX libro del Contra Faustum di Sant’Agostino, la «fonte prima» del testo. La tesi è impostata in Sotto il velame e ripresa nella Mirabile visione: come Giacobbe avrebbe dovuto servire Labano sette anni per avere in sposa Lia, simbolo della vita attiva, e rimanere al suo servizio altri sette anni prima di sposare finalmente Rachele – la vita contemplativa –, così Dante, che nell’Inferno ha conosciuto i sette peccati e nel Purgatorio ha udito le sette beatitudini, «si è venuto disponendo alla vita contemplativa», nella Commedia rappresentata da Beatrice (l’ipotesi fa tra l’altro da garanzia all’idea che l’intera costruzione del poema sia imperniata sul numero sette).
Pensando a come il rapporto tra Giacobbe, Lia e Rachele viene riportato a quello tra Dante, Matelda e Beatrice, è difficile non farsi trasportare dalla suggestione e intravedere in questa trasfigurazione anche l’ombra di un altro triangolo: quello che ai vertici ha proprio Pascoli, Ida e Maria, due sorelle, come le protagoniste del racconto biblico. È legittimo, allora, ipotizzare che esista anche una vaga, ideale sovrapposizione tra il poeta di Barga e il poeta della Commedia? Quel che è certo è che le pagine pascoliane consacrate a Dante – siano pure da soppesare attentamente nelle loro conclusioni – sono la testimonianza più viva di un dialogo destinato a non esaurirsi mai. Il legame tra i due autori va ben oltre la profonda distanza culturale che li separa, in primis testimoniata dalla divergenza abissale fra l’universo dantesco, finito e teocentrico, e l’«immenso baratro», «cupo vortice di mondi» della Vertigine di Pascoli (e questo moderno, invalicabile horror vacui deve più di qualcosa all’altro suo modello per eccellenza: Leopardi). Perduto il suo principio ordinatore, trasformatosi in caos, il cosmo infinito acquista un aspetto inquietante; è forse proprio in ragione della differenza che separa questi due giganti della poesia italiana che, quando la Cometa di Halley torna a mostrarsi, è Dante a intervenire nell’ode pascoliana, fissando davanti a sé quel cielo immenso ormai ostile ai moderni e facendo da scudo alla terra: «Dante era l’uomo (…) // Stava. Egli solo nello spazio immenso / stava a te contro, a guardia degli umani, / astro di morte. – Io mi son un che penso – // egli diceva – e sempre è il mio domani –».