Dopo un quarto di secolo, il Party Time di Harold Pinter mantiene intatta, o accresce, la sua forza. Vedeva lungo il suo occhio politico, su una società ove, in una apparente «spensieratezza», sempre più forte è la separazione tra vita e bisogni delle masse e la lucidità glamour dei poteri dominanti. Questi tutti intenti ai propri riti mondani e «salutistici», gli altri a protestare creando «insopportabili» rallentamenti alla circolazione. Allora era il blairismo che succedeva a Thatcher, oggi è la logica della finanza che barrica l’Europa in una selva di regole e muri dietro un apparente bon ton. Party Time (al teatrino di via Vittoria, ancora oggi e domani alle 17.30 e alle 20.30, ingresso gratuito da prenotare al 334 1835543) nasce come saggio degli allievi dell’Accademia Silvio D’Amico, ma la regia di Valentino Villa ne fa uno spettacolo importante a tutti gli effetti.

Innanzitutto per gli altri artisti chiamati a collaborare, da Francesco Mari per le scene a Gianluca Falaschi per le scene, da Hubert Westkemper per il suono a Marco Alba per le luci e Marco Angelilli per i movimenti; poi per l’intervento sul testo, che trova come prologo naturale un altro titolo «politico» di Pinter, Il linguaggio della montagna, quasi a moltiplicare e diversificare il rapporto sempre violento tra oppressori e oppressi.

Ne nasce una sorta di coreografia politica, in continuo movimento, in cui le parole, anche le più futili hanno il peso e la forza criminale dei proiettili. Una apparente eleganza che maschera solo formalmente la violenza delle istituzioni.