Ieri a Montecitorio non solo i deputati del Pd facesvano la fila dal collega Giacomo Portas, mago in carica dei flussi elettorali. Bussavano alla porta del sapiente anche forzisti e centristi. Tutti in cerca di una rassicurazione su quei seggi che la nuova legge rischia di scippargli con destrezza. Del resto non è un mistero che a suggerire la scorciatoia della fiducia non siano stati elevati ragionamenti politici. La minaccia veniva tutta da quei deputati che si sentivano più al sicuro con le preferenze che con la mannaia delle nomine decise dalle segreterie.

Stavolta, però, la partita che si giocherà con la composizione delle liste è ancora più importante del solito. Peserà quanto il voto propriamente detto, forse di più. A fare la differenza saranno infatti i collegi maggioritari: dalla definizione di quei candidati non dipenderanno solo i rapporti di forza all’interno della coalizione e il tasso di fedeltà al capo degli eletti, ma anche la possibilità di dare vita ad alleanze di governo diverse da quelle messe in campo ufficialmente.

Il punto è particolarmente determinante nel centrodestra. Quando si tratterà di salpare per approdare al Nazareno bis, re Silvio dovrà non solo disporre di un numero di parlamentari sufficiente a formare una maggioranza col Pd, ma anche contare su un esercito robusto abbastanza da non rendere la sua Fi una ruota di scorta del Pd. Missione difficile. A nord, dove la vittoria nei collegi è ben più probabile che al centro e al sud, la Lega insisterà per piazzare i suoi candidati ovunque. Quando lascerà la piazza maggioritaria agli azzurri punterà i piedi per strappare candidature orientate verso Pontida che, al momento del salto della quaglia, non seguirebbero Berlusconi.

È uno di quei giochi in cui non si può improvvisare. Bisogna disporre di plenipotenziari capaci di puntare i piedi e con un quadro d’insieme della situazione molto preciso. Il migliore in campo è ancora Denis Verdini, che però non pare disposto a occuparsi dell’incombenza in conto Silvio. L’aspetto più preoccupante per il signore di Arcore è che non dispone neppure di un sostituto capace almeno di emulare l’impareggiabile Denis. Spedire un principiante al tavolo delle liste, però, potrebbe rivelarsi disastroso quanto un crollo elettorale.

In superficie il Pd sembra non avere di questi problemi, ma è un abbaglio. Per contrastare il centrodestra e i 5S al sud, Renzi dovrà mettere in campo nella quota maggioritaria nomi capaci di tirare la volata. Per trovarli dovrà rivolgersi ai feudatari locali, i governatori. Le loro liste civiche probabilmente non passeranno la soglia di sbarramento, e sin qui poco male dal momento che i loro voti, come quelli del partito animalista nel centrodestra, non andranno sprecati: confluiranno nei forzieri della coalizione. In cambio però il Pd dovrà fare spazio ai nomi indicati dai governatori nella quota maggioritaria, e nessuno garantisce che Emiliano o Crocetta siano poi disposti a convogliare i “loro” eletti verso l’alleanza con Forza Italia. Il discorso vale a maggior ragione per eventuali alleati di sinistra come Campo progressista.

A complicare la faccenda c’è la necessità per Renzi di avere dalla sua una Fi tanto forte da garantirgli una maggioranza ma non da porre il veto sulla sua nomina a capo del governo. Con questo obiettivo in mente, l’ex premier ha giocato di sponda con la Lega, definendo una legge che va a tutto vantaggio di Salvini. Col rischio però di ritrovarsi alla fine con una stampella azzurra insufficiente per rientrare a palazzo Chigi.