La fibrillazione immaginifica della nuova Unione Sovietica, il suo vigore rivoluzionario e iconoclasta, gli infiniti tormenti (non soltanto artistici) della sua rigogliosa classe culturale, sembrano condensarsi in questo scatto, databile alla fine del 1928, che ritrae Dmitrij «Mitja» Shostakovich al pianoforte, chino su di lui Vsevolod Mejerchol’d, in piedi a sinistra Vladimir Majakovskij e accanto Aleksandr Rodchenko. Di lì a qualche mese – il 13 febbraio,1929 – La cimice, pièce teatrale in cinque atti e nove quadri, alla quale tutti i personaggi presenti nella foto avevano contribuito a vario titolo, debutterà a Mosca.

Poco meno di un mese prima, Trockij era stato mandato in esilio, spianando definitivamente la strada all’avvento di Stalin, destinato a cambiare il corso della Storia e la fortuna dei quattro intellettuali, ancora tranquillamente al lavoro nella foto. Mejerchol’d, regista della Cimice e punto di riferimento per la scena teatrale russa di inizio Novecento, conobbe la sorte peggiore: arrestato per ordine di Stalin, morirà nel 1940 (così come sua moglie), dopo giorni di atroci torture documentate in agghiaccianti lettere dal carcere.
Majakovskij, poeta e drammaturgo che della Cimice era stato autore e della Rivoluzione d’ottobre orgoglioso cantore, nel 1930 si suiciderà, spiazzato anche dalle critiche che gli venivano dal Partito: non aveva ancora compiuto trentasette anni e confidava in un nuovo corso della cultura russa. Shostakovich, cui si devono le musiche di scena della pièce, sarà costretto a barcamenarsi, per il resto della propria vita e della propria carriera, tra prese di posizione a volte apparentemente inconciliabili, allo scopo di gestire al prezzo del minimo danno il conflitto permanente con le autorità politiche; da qui la sua fama scomoda di artista ambiguo.
Quanto a Rodchenko, primo scenografo della Cimice, privato delle motivazioni imprescindibili di Mejerchol’d, finirà con l’esaurire quella carica innovativa che, nei primi trent’anni del secolo breve, ne aveva fatto, insieme alla compagna Varvara Stepanova, un acuto architetto di immagini e un geniale designer ante litteram.
Il filo rosso dei destini
È nel consenso, più spesso nel dissenso suscitato presso l’opinione pubblica ufficiale del proprio paese, che si può dunque individuare un filo rosso in grado di legare i destini dei quattro artisti. Fu Mejerchol’d a volere che il ventiduenne Shostakovich firmasse le musiche di scena per La cimice. I due avevano avuto modo di conoscersi qualche mese prima, quando Mitja aveva accettato il posto di pianista di scena nel teatro moscovita del più anziano artista. Proprio questa esperienza contribuì a far nascere nel compositore l’interesse nei riguardi di una musica modulata sull’immagine (i cui esiti matureranno felicemente in campo cinematografico); ma, più in generale, la frequentazione con Mejerchol’d svelò al curiosissimo Shostakovich la magia del teatro. Il linguaggio musicale che adottò, sulla scia dell’illustre modello (Mejerchol’d viene ricordato come creatore della «biomeccanica teatrale») e alle dottrine circolanti nel periodo immediatamente postrivoluzionario, si rivelò rigorosamente ostile a qualsiasi forma di naturalismo. Dunque, ove possibile, grottesco, sarcastico, surreale. E, soprattutto, antiborghese, come dimostra l’opera Il naso, che Shostakovich scrisse nel 1928 (la prima fu allestita nel 1930), ospite a Mosca in casa dei Mejerchol’d.

L’audacia dissacrante che Mitja aveva riversato nella sua prima partitura risultò, evidentemente, risolutiva nel fare sì che fosse presentato e proposto a Majakovskij per La cimice. Il compositore, da parte sua, conosceva già e approvava l’opera del poeta probabilmente più delle idee politiche che vi leggeva tra le righe.
Paradossi ideologici
Il giovane Shostakovich – a onta del trionfalismo di comodo ostentato nella Sinfonia n.2, del 1927, comunque attraversata da ansie sperimentali e da una vena di eccesso non priva di ironia – sembrava, infatti, già allergico, agli estremismi. Nel fatidico 1917, aveva composto una Marcia Funebre per gli eroi della resistenza antizarista, salvo poi ritornare sul pezzo, poco dopo, variandone il titolo per onorare le prime vittime della repressione bolscevica. Era, allora, un ragazzino di undici anni, ciò che rende del tutto fuori luogo un eccesso di riprovazione, e tuttavia in qualche modo autorizza l’identificazione di una sua timorosa attitudine all’irresolutezza.

Sia nel caso di Shostakovich che in quello di Mejerchol’d, la critica «ufficiale» del Soviet si sarebbe concentrata, paradossalmente, sui fattori artistici prima ancora che ideologici, laddove la complessità del linguaggio adottato o la scarsa considerazione delle tradizioni che impedivano la messa in comune dell’esperienza musicale e teatrale concepita dai due artisti, venne assimilata a un errore politico e, per questo, condannata. Mejerchol’d, insomma, morì di teatro, come accadeva in epoca medioevale, accusato tra l’altro di guardare all’Europa, con il suo orientamento straniante così vicino a Brecht. Alla musica, invece, lo Stato riconobbe potenzialità sovversive meno esplicite: la valutazione resta discutibile, ma salvò Shostakovich e ne fece un protagonista dell’intero Novecento.

Così significativo fu il rapporto con il poeta russo, che ancora nel 1956 Shostakovich scriveva: «Pensai ingenuamente che Majakovskij fosse nella vita come era sul podio, ma in realtà non fu così. Majakovskij mi stupì per la sua tenerezza e per la sua socievolezza, per il suo ottimo comportamento, e mi piacque molto. Era un uomo sensibile, piacevole, attento. Ascoltava più volentieri di quanto parlasse».
La storia narrata nella Cimice è quella di un uomo con pulsioni borghesi che si risveglia, dopo cinquant’anni di ibernazione, nel 1979, in un mondo universalmente comunista, dove viene considerato, ormai, una attrazione da baraccone. La vicenda tanto astrusa non poteva che aspirare a una musica aliena da qualsiasivoglia schema preesistente: Majakovskij chiese al compositore di prendere a modello lo stile e il repertorio delle bande dei pompieri; e venne accontentato, con humour e con rigore.

Quando Shostakovich presentò la sua seconda opera, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, Majakovskij era già morto da quattro anni. Per un attimo, Mejerchol’d aveva pensato di firmarne la regia, poi rinunciò, oberato dagli impegni. Se vi avesse lavorato, avrebbe forse accelerato quel processo di damnatio destinato a coglierlo comunque, di lì a poco e che, fino alla riabilitazione pubblica in era post stalinista, ne avrebbe macchiato persino la memoria.
Lady Macbeth, infatti, procurò a Shostakovich quelle note accuse di «formalismo» che avrebbero segnato il declino della sua popolarità presso la classe dominante. La successiva sceneggiata dell’abiura solenne in forma di sinfonia (la Quinta è pagina pregevole al di là dell’improbabile valenza espiatoria) servì solo a mitigare quel clima di diffidenza che, fino almeno al 1953, sarebbe pesato su Shostakovich come un ostacolo capace di orientarne la libertà espressiva, senza mai limitarla davvero.