Come in uno specchio rovesciato si riflette lo spettatore della Vita ferma, la nuova scrittura in tre atti di Lucia Calamaro, programmata in apertura del «Ritratto d’artista» che il Teatro di Roma le sta dedicando fino al 21 maggio, cui seguirà il riallestimento dei suoi altri due lavori, L’origine del mondo e Tumore. Del dramma della morte l’autrice e regista romana ne fa una sorta di trash sofisticato, una partitura pop costruita in sottrazione fino al trionfo del linguaggio quotidiano, ma asciugato da ogni sentimentalismo. La parodia di un ceto medio intellettuale che scimmiotta se stesso, crogiolandosi nella banalità del suo ménage. Tre personaggi-archetipi: madre, padre e figlia, osservati nel momento della perdita e solo in rapporto ad essa.

La donna è già morta quando La vita ferma inizia. E dopo due ore e mezza il titolo mostra una doppia valenza, antifrastico rispetto alla sequenza diacronica e affermativo per l’autenticità del fatto. Sul palcoscenico del Teatro India, troviamo il padre (Riccardo Goretti) che sta impacchettando ogni cosa per il trasloco, continuamente distratto dal chiacchiericcio con sua moglie (Simona Senzacqua), ricoperta da uno dei suoi vestiti a fiori. È il flusso di coscienza di un uomo in lutto che vivifica i suoi pensieri in dialoghi disperanti e sarcastici: il loro primo incontro e l’esistenza insieme. Se ne deduce che lui sia uno storico impacciato e lei una ex danzatrice lamentosa. Due presenze che tendono alla comicità straniante senza arrivare alla asciuttezza della coppia Santoro/Deflorian dell’Origine del mondo.

Nella seconda parte è la comparsa della malattia a squilibrare l’ordinarietà, con la figlia (Alice Redini) preadolescente viziata e in cerca delle attenzioni di una madre artistoide e improbabile epigona dei giochi di veli di Loïe Fuller. Iper-protetta e stupidamente esclusa dal funerale «perché troppo piccola», la privano di un dolore che la natura ci consegna come atto finale. E della memoria di un luogo cimiteriale che nel terzo atto incinta invano cercherà insieme al padre. Dimenticanze estreme il cui effetto catartico è quello di rinnovare il ricordo del volto, il sorriso, le parole dei nostri morti.