Una ragazza accende la radio: «Nonna ecco funziona senti?» dice sulle note morbide di una canzone portoghese. La donna anziana, la guarda e risponde un poco piccata che lei la radio non l’ascolta mai, che è una cosa per vecchi. Gipsofila è uno dei film premiati al Torino Film Festival che si è da poco concluso nella sezione Documentari Internazionali, coordinata da Davide Oberto insieme a Severine Petit e Mazzino Montinari. Una parte importante quella focalizzata sul doc nel festival — c’è anche la parte italiana vinta da Il Solengo — che col tempo ha «contaminato» l’intero programma, i doc infatti sono anche nella sezione principale, in gara, e in numero sempre maggiore.

Cosa questa che se da una parte testimonia la vitalità del cinema di realtà — definizione stretta questa, tutto il cinema lo è ed è il suo contrario come ci mostra Miguel Gomes nel suo magnifico Le mille e una notte, presto nelle nostre sale grazie al MFN -Milano Film Network. Diciamo allora che il cinema di realtà è più libero, nei suoi risultati migliori che sono quelli in cui i dogmi del reale vengono scompigliati e messi in discussione.

Eccoci dunque a Gipsofilia, nome di un fiore di campo, da paesaggio impressionista, per un confronto tenero tra due donne, nonna e nipote, la regista Margarida Leitão. Nell’appartamento della nonna la ragazza mette la sua macchina da presa, vaga tra le stanze, filma un quotidiano ma soprattutto racconta una relazione, tenera, allegra, fatta di dolcezza e complicità. Nonna e nipote si scoprono, chiacchierano, la nonna condivide storie e ricordi, la ragazza l’ascolta, a volte la provoca con l’impertinenza che hanno i ragazzini.
Non c’è una storia se non il susseguirsi delle giornate, e questa relazione che il cinema rende appassionante. Non è cosa da poco, anzi è forse una delle scommesse più difficili delle immagini, catturare il tempo, il suo scorrere nel giorno, il suo farsi storia e gesto.

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Il primo premio della sezione Dans ma tête un rond-point di Hassen Ferhani, ne avevamo già parlato dal Fid di Marsiglia dove il film era stato premiato nella sezione francese. Ma è un grande film, in cui i temi al primo posto nella cronaca oggi, immigrazione, frustrazione, sentimento di fuga, rapporto tra nord e sud del mondo, assumono un rilievo potente grazie al punto di vista del cineasta. Che sceglie una prospettiva obliqua, violenta e insieme partecipe, inquadrando i suoi personaggi frontalmente, come pitture d’altra epoca. Siamo in un mattatoio alla periferia di Algeri, i lavoratori compongono un’umanità di sogni, miseria, rabbia, rassegnazione. I ragazzi vogliono partire, hanno in mente l’Italia, cercano la libertà. Chi è anziano rimane, la sua vita l’ha giocata in quelle stanze.

Un folle somiglia a un mago, traccia i suoi cerchi magici per aria. Nel mattatoio la morte delle vacche si sovrappone alle partite che arrivano dal vecchio televisore, alle canzoni rai e alle confidenze tra maschi su ragazze e amore.

Il tempo anche qui è il protagonista, e rende questo film fortemente politico nella sua scelta di tracciare le linee della realtà e dei suoi conflitti sui bordi delle inquadrature, fuori dalla cronaca, e anche contro di essa e contro le sue immagini che macinano tutto, rendono ogni dettaglio uguale all’altro, ogni figura indistinta cifra di un paesaggio formattato.
Interrogarsi sulle possibili sfide del documentario (meglio dire dell’immagine) oggi, dovrebbe essere la scommessa di ogni festival, e ancora più di quelli che si propongono di esplorare le geografie dell’immaginario. La selezione del TffDoc cerca di rispondere a queste esigenze, mescola profondità, ricerca, e necessità di un’immagine che sia politica e insieme formalmente capace di mettersi in discussione. Qualcosa che costruisce possibilità e insieme apre a nuove tendenze.