Nessun altro risultato era possibile, in un partito ormai strutturalmente trasformato nel partito personale di Renzi. È stato sempre un miraggio l’obiettivo di mantenere Renzi sotto il 50%. I resti di quella che fu una formidabile armata di militanti hanno dunque certificato in larga maggioranza l’obbedienza al capo.

Ma – appunto – i resti, e nemmeno tutti. In un partito smagrito nonostante la fase congressuale, con l’apparato praticamente unanime a sostegno dell’ex segretario, quasi la metà degli iscritti ha scelto di disertare le urne. D’altra parte, perché un iscritto dovrebbe impegnarsi, quando sa che il peso del suo voto sarà azzerato da chi, con un obolo, ha diritto di decidere sul segretario e sugli equilibri del partito? Ma sappiamo che per Matteo conta vincere, non partecipare.

La primaria aperta, cui il Pd si avvia, è un meccanismo incompatibile con qualunque idea di soggetto politico organizzato. L’iscritto Pd ha meno tutele di quelle che il diritto riconosce a chi è membro di qualunque forma associativa. Tanto per non cambiare, è dubbia anche la compatibilità con la Costituzione, che all’art. 49 garantisce ai cittadini il diritto di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Ora, sembra evidente che il metodo democratico, riferito all’organizzazione del partito, comprenda anzitutto i diritti dell’iscritto di concorrere decisivamente alle scelte del partito medesimo, ivi inclusi gruppi dirigenti, programmi, candidature. Diritti che non possono essere scambiati per la democrazia usa e getta nella primaria aperta. Qui norme generali di legge sarebbero davvero indispensabili.

Il 30 aprile si prevede una conferma. Per la minoranza interna il risultato di oggi potrà anche peggiorare. Comunque, non ne verrà una posizione di forza, e questo significa che la minoranza avrà lo spazio che Renzi sarà disposto a lasciare.

La domanda è: vorrà Renzi derenzizzare il partito, o vedremo un remake del film dei fuoriusciti? Al Renzi di oggi piace la parola “comunità”, che però in un partito non significa tenersi compagnia. Sono due i passaggi per far uscire il Pd dalla gestione autocratica e autoreferenziale imposta da Renzi. Il primo è associare la minoranza interna al governo del partito, assegnandole responsabilità a livello di segreteria in settori importanti, come l’organizzazione o gli enti locali. Il secondo è includere nel programma del partito elementi significativi del progetto politico della minoranza. Compito non facile, dal momento che nelle sommarie indicazioni emerse nella campagna congressuale la minoranza sembra proporre, se pure timidamente, di smantellare alcuni elementi essenziali del renzismo della prima ora, ad esempio sul lavoro o sulla scuola. Rivedremo l’obbedienza tradotta in decisione degli organi collegiali? Risentiremo il mantra del decide chi vince e gli altri si adeguino?

Si aggiunge poi la legge elettorale. Alla minoranza interna dovrebbe piacere una virata in senso proporzionale e senza capilista bloccati, per competere e affermarsi con proprie parole d’ordine al di fuori di una riserva indiana disegnata e assegnata da Renzi. Qualche sussurro dalla maggioranza Pd sembra invece al momento suggerire l’intenzione di estendere al Senato l’Italicum come uscito dalla sentenza 35/2017 della Corte costituzionale. Un ordine in tal senso ai gruppi parlamentari Pd sarebbe un pessimo segnale.

Saranno le scelte sul partito e sulla legge elettorale a certificare il Renzi 2.0. E ci diranno anche cosa deve aspettarsi la sinistra fuori del Pd. Certo è che deve attrezzarsi per competere, senza sconti per nessuno. Renzi avrà interesse a togliere ogni spazio, ma anche la minoranza Pd avrà interesse a guadagnare terreno sottraendolo a chi è fuori, e potrà farlo solo a sinistra. I minuetti della politica potranno dare messaggi diversi, ma i fatti saranno questi. E come diceva un tale che a Renzi sicuramente piace molto, a pensar male si fa peccato, ma si indovina.