Ridurre subito il finanziamento pubblico ai partiti del 40% e azzerarlo completamente entro tre anni. È l’impegno preso ieri dal Consiglio dei ministri, non ancora un disegno di legge da passare alle camere perché mancano le verifiche della ragioneria generale. Ma se il testo definitivo non c’è, già ci sono gli appelli al parlamento perché lo approvi presto. Lo chiede il presidente Letta, lo ripetono ansiosi i parlamentari di maggioranza. Sui soldi l’Italia non segue l’Europa, dove forme di contribuzione pubblica coesistono con i finanziamenti privati. Berlusconiani, democratici e centristi – gli stessi che dieci mesi fa avevano approvato una riforma «di sistema» che andava in senso opposto – scelgono di consegnarsi al potere delle lobby. Lo stato potrà al massimo aiutare ad affittare qualche sede, pagare le bollette. Poco, ma comunque troppo per Beppe Grillo, che subito strilla alla legge truffa. Eppure è il modello 5 stelle che vince: chi paga i conti (Grillo e Casaleggio, che reinvestono i guadagni del sito, a sentir loro pure rimettendoci) comanda.

Chi paga pretende, e allora sarà utile ricordare che il maggiore finanziatore dell’ultima campagna elettorale del Pd è stato Patrizio Bertelli, il signor Prada. Quando si dice una scelta di classe. In quella campagna elettorale, peraltro, Bersani, ha sempre detto di voler ridurre ma confermare il finanziamento pubblico, sulla linea di quanto deciso dalla legge del luglio scorso che introdusse i matching funds (finanziamenti pubblici calcolato sulla quota di autofinanziamento), dimezzò il contributo pubblico totale portandolo a 91 milioni di euro e con mossa demagogica destinò i risparmi ai terremotati, nel momento in cui il governo (dagli stessi partiti sostenuto) tagliava i fondi per la ricostruzione. Berlusconi al contrario ha insistito perché il finanziamento pubblico venisse tolto del tutto, dunque ieri in Consiglio dei ministri ha vinto lui. Del resto la sua Mediaset – per avere un termine di paragone – nei due mesi di trend positivo successivo alle elezioni ha guadagnato in borsa dieci volte il totale dell’intero e residuo finanziamento pubblico ai partiti.

Che dovrà sparire, perché il governo ieri ha deciso che nel 2014 sarà pagato solo il 60% dei 91 milioni previsti, solo il 50% nel 2015 e solo il 40% nel 2016. Una diminuzione graduale che sta già facendo rischiare il posto di lavoro ai dipendenti dei partiti, e che si spiega con il fatto che solo nel 2017 potranno essere erogate le somme che i cittadini destineranno al finanziamento della politica con il meccanismo del due per mille dell’imposta sul reddito, con la possibilità di scegliersi il partito da sovvenzionare. Come per il sostentamento alle chiese, anche in questo caso è previsto che il cosiddetto «inoptato» venga ripartito proporzionalmente alle scelte fatte, e tra i partiti in proporzione ai risultati elettorali. Sul punto si è concentrata la polemica di chi giudica ingiusto questo meccanismo, perché finisce col girare ai partiti anche i contributi di chi non li avrebbe scelti. È assai improbabile però che i cittadini faranno la fila per firmare in favore della politica – per gli scandali cui hanno dovuto assistere ma anche per questa cattiva pedagogia. In ogni caso il ministro Quagliariello ieri ha indicato un tetto massimo per il meccanismo del due per mille: 61 milioni. La riduzione, cioè, potrebbe essere di un terzo rispetto alle somme garantite oggi. Ma questo solo nell’eventualità – ripetiamo, molto remota – in cui tutti i contribuenti italiani scegliessero di aiutare i partiti.
La riforma immaginata dal governo delle larghe intese poggia invece su un altro pilastro: il contributo dei privati alle formazioni politiche. Consentito alle persone fisiche e detraibile al 53% fino a 5mila euro e al 26% fino a 20mila euro. Anche le società potranno contribuire, detraendo il 26% per versamenti (tracciabili) fino a 100mila euro. Non c’è un limite alla contribuzione, solo un limite allo sconto fiscale. La legge attuale prevede che vengano resi pubblici solo i versamenti superiori ai 50mila euro, e consente la detrazione in caso di versamento a qualunque partito. Con la nuova legge solo i versamenti ai partiti con uno statuto in regola, – che contenga le modalità di partecipazione alla vita politica interna – e regolarmente iscritti in un apposito registro, garantiranno lo sconto fiscale. Oggi il fisco concede sconti più bassi, ma privati e imprenditori finanziano già la politica, per un totale di 40 milioni di euro alle ultime elezioni. Meglio che in Inghilterra, dove alle elezioni del 2010 i partiti ricevettero contributi per 30 milioni di euro. In Inghilterra, però, è previsto anche un contributo pubblico ai partiti di opposizione (7 milioni al Labour party nel 2011-12), i cosiddetti Short money con i quali si riequilibra il vantaggio della maggioranza. Un rimborso per le spese elettorali è previsto in Germania in ragione di 85 centesimi per ogni voto (fino a 4 milioni, poi i centesimi scendono a 70), in Francia – circa 80 milioni di euro nel 2012 di contributi pubblici diretti – e in Spagna – 65 milioni nel 2012. In Italia nulla del genere più.

Incaricato di applicare la spending review ai partiti, Giuliano Amato ha consegnato al governo Monti un rapporto complessivo sul tema solo l’anno scorso. Concludendo che «non esiste ordinamento democratico che non preveda un accettabile finanziamento pubblico del momento elettorale come garanzia minima di uguaglianza delle chances di partecipazione di tutti alla vita politica». Nemmeno gli Stati uniti, dove sono i candidati a rinunciare ai finanziamenti elettorali perché preferiscono i soldi delle lobby, come quella delle armi. L’Italia, con le larghe intese, può fare di più.