La palla a due prima della rivoluzione. Sono partiti i playoffs Nba. Si comincia a fare sul serio fino a giugno inoltrato, vanno in panchina le partite di regular season con poca difesa e stelle che danno il meglio solo nell’ultimo quarto. Miami Heat, Indiana Pacers, San Antonio Spurs, Oklahoma City Thunder, le candidate a infilare l’anello al dito. Per la franchigia della Florida guidata da Lebron James sarebbe il terzo successo in fila, come accaduto ai Los Angeles Lakers di Phil Jackson di inizio millennio o prima ancora, due volte, dai Chicago Bulls di Michael Jordan, sempre con il Maestro Zen in panchina.

Che ha accettato una scrivania da capo ai New York Knicks poco prima che la franchigia più cool delle Lega perdesse il treno dei playoffs. In compagnia dei Boston Celtics e dei Lakers, 33 titoli Nba in due, nobilissime decadute in una stagione anonima. Ampiamente prevista per i Celtics, che stanno ricostruendo dopo l’addio di Paul Pierce e Kevin Garnett. Mentre i californiani hanno pagato gli infortuni ripetuti di Kobe Bryant, Steve Nash, Pau Gasol. Lo scettro tocca di nuovo a Lebron James, assoluto protagonista prima sul parquet, poi forse con una penna in mano. In ballo c’è la possibilità di lasciare Miami per avviare le pratiche di una nuova dinastia in altre franchigie.

Dando così il via alla rivoluzione tanto attesa nella Lega, con superstar, come Dywane Wade (sempre dei Miami Heat) o Carmelo Anthony dei New York Knicks, che hanno l’opzione di uscire dal loro contratto per firmare altrove da free agent. Tanti dollari sul piatto per una Nba che vive un profondo restyling, avviato con il rinnovo del contratto collettivo degli atleti, due stagioni fa. Che mette un freno alle spese pazze delle franchigie più ricche, dai Los Angeles Lakers agli stessi Miami Heat di James. Per i proprietari che sgarrano c’è la luxury cap, ovvero dollari in tasse che finiscono nelle tasche delle altre società – più passano gli anni, più alta è la percentuale di pezzi in verde da cui separarsi – se si scavalla il salary cap. In questo modo niente più stelle in una sola franchigia (Miami ha ora a libro paga James, Wade e Chris Bosh) e più competizione per arrivare al successo finale. Solo uno dei frame di un microcosmo che cambia, complice la flessione degli introiti nelle ultime tre stagioni. Solo quest’anno ecco le casacche con le maniche per i team, tanto contestante da alcune star in particolare, che hanno garantito un boom nel marketing.

In attesa degli sponsor sulle casacche, passaggio annunciato – sarebbe il primo caso tra le leghe major dello sport statunitense – dal nuovo commissioner della Lega, Adam Silver, che ha tolto la poltrona al leggendario totem David Stern, uomo che ha portato la Nba in Europa e Asia. Niente più maglie con numero e nome del team, come quella di Jerry West con i Lakers o Bill Russell con i Boston Celtics, la strada è seguire l’esempio di brand consolidati come la Champions League, al momento l’evento sportivo più ricco del mondo. Nel frattempo, spazio al parquet, con i Miami Heat di Lebron James, ammaccati per gli infortuni che devono guardarsi dai Thunder di Kevin Durant, probabile mvp della regular season.

Mentre i San Antonio Spurs di Tim Duncan, Toni Parker, Manu Ginobili e dell’ottimo Marco Belinelli sono davvero all’ultima chiamata per vincere un altro titolo. Un posto nella leggenda per i texani c’è già.