Usca, queste sconosciute. Sono le Unità speciali di continuità assistenziale e il loro scopo è quello di assistere a domicilio i pazienti affetti da Covid-19 o presunti tali. Sono giovani medici in prima linea. Il loro ruolo è fondamentale ed è quello di alleggerire gli ospedali e i medici di famiglia, con cui lavorano a stretto contatto. Istituite dal governo con il decreto legge del 9 marzo, dovevano essere attivate entro il 20 marzo da tutte le Regioni. In Piemonte sono partite con circa un mese di ritardo. Abbiamo incontrato, reduce da giornate durissime, Gaia Deregibus, medica Usca nel distretto Nord-Est dell’Asl Cn1 che copre Savigliano, Fossano e Racconigi, in provincia di Cuneo. Fa parte della rete Chi si cura di te?, coordinamento di medici giovani a livello nazionale.

Come è cambiata, in queste settimane, la situazione?

È degenerata, dopo un periodo tranquillo. Quasi da un giorno all’altro, dall’ultima settimana di settembre in poi. Siamo in quattro per un turno di 12 ore – compreso di visite domiciliari e di consulti telefonici – che però, per un eccesso di richieste, si prolunga a 15-16 ore di lavoro al giorno. Attualmente abbiamo cento pazienti in carico e cento in attesa. Il 90% dei casi che ci segnalano i medici di famiglia sono positivi al Covid, a inizio settembre erano il 10%.

Qual è il ruolo delle Usca e quali mansioni ricoprono?

La figura dell’Usca nasce dall’idea di affiancare il lavoro del medico di famiglia sul territorio con il compito di occuparsi direttamente dei pazienti Covid per evitarne l’ospedalizzazione. Un aspetto che, anche per il ruolo ibrido di libero professionista convenzionato del medico di famiglia, era svolto con difficoltà da quest’ultimo. Nel nostro distretto, grazie all’intervento della dottor Andrea Gili e del team dell’Asl Cn1, offriamo un servizio più articolato rispetto ad altre Usca: esami del sangue, elettrocardiogramma a domicilio.

Quali sono le difficoltà che incontrate?

È difficile stare dietro a tutti, facciamo gli straordinari per cercare di rispondere alle richieste. I pazienti sono troppi e spaventati, hanno paura di essere abbandonati. Spesso non sanno cosa siano le Usca e il dialogo a distanza non è semplice, ma quando spieghiamo il nostro ruolo si rasserenano. È importante che sappiano che non sono soli. Ritengo, poi, che debba essere implementata la piattaforma regionale perché non è funzionale a capire le gravità e non viene permesso ai medici di famiglia di mandare in automatico, senza passare da noi, i paucisintomatici (con pochi sintomi) al drive in per il tampone, che a Savigliano rimane in aperto solo due ore.

Quali interventi servirebbero per migliorare il servizio?

Quello che farebbe la differenza è il prolungamento dell’orario del drive in per scaglionare i pazienti con appuntamenti online, evitando affollamenti. Servirebbero due persone in più come Usca e qualcuno che si occupi dei paucisintomatici indirizzandoli al drive in.

Che tipologie di pazienti state seguendo?

Quelli che visitiamo con più frequenza sono i grandi anziani (ultraottantenni) con varie patologie, che rischiano l’ospedalizzazione e che, in caso di saturazione del sistema sanitario, rischierebbero di essere messi da parte. Monitoriamo i cardiopatici in una fascia di età oltre i 55 anni, che rischiano più facilmente un peggioramento. Le nostre risorse sono concentrate soprattutto sui pazienti più fragili.

Quali differenze ha notato con la prima ondata?

Le Usca non esistevano ad aprile, sono partite in ritardo e, quando abbiamo iniziato, la curva dei contagi era in discesa. Ora, siamo sotto stress ed è impossibile fare un paragone. Personalmente, nonostante l’enorme fatica, mi sento più utile rispetto alla prima ondata.