«Io sempre fui ridicolo e lo so, forse fin dalla mia nascita. Di me ridevan tutti e sempre. Ma nessuno di loro sapeva, né indovinava che, se c’era un uomo sulla terra più di tutti consapevole ch’ero ridicolo, quello ero io stesso. Da me ci sono un divano di tela cerata, un tavolino , due sedie e una comoda poltrona, vecchia, vecchissima…».
A parlare è Fedor, l’uomo ridicolo raccontato da Dostoevskij, ma le parole non stonerebbero se a pronunciarle fosse stato il ragionier Ugo Fantozzi. Certo, seduto su quella poltrona Ugo non avrebbe acceso una candela ma la tv: sintonizzato sulla telecronaca di Inghilterra-Italia, equipaggiato di frittatona di cipolle e familiare di Peroni gelata, si sarebbe lasciato andare a tifo indiavolato e rutto libero.

PIù che un sogno dostoevskiano la vita di Fantozzi è stata una tragedia: ragioniere, prodotto italiano dei più tipici; impiegato presso l’Ufficio Sinistri (matricola 1001/bis) di in una non ben definita Megaditta (ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica), apparse per la prima volta dopo essere rimasto murato, per diciotto giorni, nei vecchi gabinetti dell’azienda senza che nessuno se ne accorgesse; capiufficio o colleghi, non paghi di averlo subissato delle proprie pratiche, ne hanno sempre stravolto crudelmente il cognome («Fantocci; «Bambocci»… «Pupazzi»).

Ha vissuto infelicemente in una casa a equo canone con la moglie Pina e la scimmiesca figlia Mariangela, con l’unico vanto d’aver detenuto il record condominiale di zapping: trecentottanta cambi di canale in ventisei secondi netti. Non è stato un uomo buono, almeno non del tutto, però sostanzialmente mite: un «coglionazzo», e su questo sono sempre stati tutti d’accordo (anche, e sia pur pietosamente, la sua signora Pina).

Di lui si è sempre riso; del resto, come avverte Bergson, si ride soltanto di ciò che è propriamente umano. Umano e relativo all’imperfezione umana. Fantozzi ha rappresentato la massima espressione della frustrazione (si strangolava o ustionava ogni volta che si cibava, naufragava quando si imbarcava e sprofondava continuamente in gaffe subumane): ha evidenziato la falla, l’aspetto abnorme, la stupidità sottesa, che non cogliamo completamente ma che abbiamo già intuito perché alla fine ci riguarda personalmente (d’altronde il personaggio si è ispirato alle nostre piccole meschinità, così come noi a lui).

Per tutto  questo è diventato un aggettivo deonomastico che ha trovato spazio addirittura sul dizionario Treccani (fantozziano agg. [der. di fantozzi (v. la voce prec.)], fam. – Di persona, impacciato e servile con i superiori: quel collaboratore è proprio una figura fantozziana. Anche, di accadimento, penoso e ridicolo: una situazione fantozziana).
Come ha sottolineato Stefano Bartezzaghi «che il mondo in cui viviamo sia largamente esemplato sul fantozziano lo si è visto con le intercettazioni, quegli inverosimili dialoghi che da anni rendono testimonianza su quello che accade dietro le quinte del potere. (Da notare che tra i vari uffici in cui Fantozzi presta la sua opera c’è anche «l’ufficio Intercettazioni Telefoniche Varie»).
Adesso del fantozziano non abbiamo più il suo umile rappresentante in terra. Auguriamogli per sempre violini tzigani e colazioni da Gigi il Troione.