Stroncato l’ostruzionismo con un’interpretazione assai originale del regolamento, adesso il presidente del senato Piero Grasso «cangura» assai meno (nel senso che fa «piccoli salti», cancellando pochi emendamenti alla volta) e la riforma costituzionale di marca governativa è a un passo dalla prima approvazione. I senatori ora si concedono ampie pause nei lavori no stop, gli «aventiniani» della Lega e dei 5 Stelle traballano nella loro fermezza, comparendo e scomparendo dai banchi senza dare troppe spiegazioni. Anche l’ultimo ostacolo per l’ampia maggioranza che va dal Pd a Forza Italia viene superato di slancio, con solo una lievissima apprensione: 143 contrari e 141 favorevoli (e 3 astenuti) all’ultimo emendamento sul quale è stato concesso il voto segreto, quello firmato dal gruppo Chiti-Casson del Pd e da Sel per conservare la competenza bicamerale per le leggi di amnistia e indulto. Niente da fare, per due voti si salva il governo che peraltro temendo scivoloni si era prudentemente rimesso all’aula. Doccia gelata sulle residue energie degli oppositori, la notizia forse non è così cattiva per chi continua a sperare in un provvedimento di clemenza ed è certamente ottima per il governo. Renzi, sempre più regista anche dei lavori del senato, fa sapere che già domani vorrà assistere in aula all’ultimo trionfale passaggio.

Era stata la mancata presenza di un altro protagonista assoluto di questa riforma, il relatore Calderoli, a mandare in bambola per mezz’ora alla ripresa dei lavori, nel pomeriggio, la maggioranza, il governo e anche il presidente del senato. Il leghista era stato fermato prima da un malore, poi da un grave lutto familiare, e la sua assenza poteva giustificare la decisione di rimandare l’esame degli articoli 10, 11, 12 e 15 della riforma, rinvio in realtà funzionale a qualche correzione nel testo che il governo cercherà di presentare come mediazione con le minoranze. Calderoli però fa sapere che sta arrivando, neanche lo sciopero dell’Alitalia lo blocca. E così Grasso fa partire la discussione sugli emendamenti all’articolo 10, quello che modifica il procedimento legislativo, poi blocca tutto e salta all’articolo 13, litigando con l’altra relatrice Finocchiaro. L’ultimo confronto sarà tra Lega, Pd, Forza Italia e governo, entro oggi è atteso qualche ritocco a proposito di leggi di iniziativa popolare (in commissione le firme necessarie sono passate da 50mila a 250mila senza che sia stato introdotto il referendum propositivo né garantito l’esame in tempi certi da parte della camera) e di referendum (è stato previsto il quorum mobile sulla base della partecipazioni alle ultime politiche, ma le firme sono state alzate da 500mila a 800mila). L’esame del disegno di legge riprenderà stamattina dall’articolo 21, quello che riforma l’elezione del presidente della Repubblica regalando alla maggioranza – garantita dalla prossima legge ultramaggioritaria per la camera – la possibilità di eleggere da sola il capo dello stato, sia pure al nono scrutinio. Nella notte i relatori potrebbero venire incontro alle richieste di allargare la platea dei grandi elettori, almeno ai deputati europei. Ma a questo punto Renzi non ha più bisogno di offrire contentini alle opposizioni.

Esauriti i tempi di intervento nei primi giorni di dura battaglia ostruzionistica, adesso per i senatori di Sel e per i pochi «dissidenti» del Pd è difficile anche spiegare gli emendamenti non strumentali, e il ritmo dei lavori sulla riforma «storica» che cambia un terzo della Costituzione non prevede alcun dibattito. L’aula macina in mezzo pomeriggio diverse centinaia di votazioni elettroniche, tutte uguali, una routine di banchi che votano da soli grazie allo sperimentato trucco della pallina di carta inserita nella buca delle dita, anche negli scranni del governo che sono al centro degli sguardi (quando lo fanno notare alla sottosegretaria Vicari, lei persino si risente: in fondo era in aula anche se non al suo posto). Ad un tratto ricompaiono i grillini, mentre i leghisti l’hanno già fatto in omaggio alla presenza di Calderoli. L’aula appare piena, salvo che i 5 stelle non hanno inserito la scheda e restano fantasmi per il tabellone elettronico. Votano rapidi solo nel voto segreto, sperando così di prendere in contropiede democratici e forzisti abituati a considerarli assenti. Ma alla fine le assenze determinanti risultano quelle di tre senatori dissidenti del Pd – Corsini, Mineo e Mucchetti – che pure sostenevano l’emendamento sulle leggi di amnistia e indulto. Così il governo supera l’ultimo ostacolo.