Prima del giornalista sportivo Gianni Brera, ci fu il Gioann partigiano che armi in pugno difese la Repubblica partigiana della Val d’Ossola. Un aspetto sconosciuto della sua controversa biografia. Firmò come direttore la prima copia de L’Unità delle valli liberate. Il Pci voleva farne un intellettuale di sinistra, ma Brera scelse la Gazzetta dello Sport, che diresse a 30 anni.

Ne parliamo con Sergio Giuntini, autore di Il Partigiano Gianni (sedizioni, euro 23).

Gianni Brera partigiano, un passato sconosciuto?

Nella biografia di Gianni Brera, come ha sostenuto il prof. Franco Contorbia, studioso del giornalista, ci sono ancora alcune zone d’ombra. Una fase complessa della sua vita va dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione. Si laurea a Pavia in scienze politiche, fa il militare come sottufficiale a Barletta, scrive. Intuisce che un corpo dove può fare il capo ufficio stampa, è quello della Folgore perché in via di organizzazione, a Tarquinia si sta costituendo la prima scuola di paracadutisti, perciò chiede di essere trasferito. Era interessato al volo, ma aveva anche paura di lanciarsi con il paracadute, alla fine la vive come una di quelle esperienze virili, che a lui non dispiaceva. A Tarquinia scrive sul giornale della Folgore, effettua otto lanci con il paracadute, e racconta queste sue esperienze anche attraverso due articoli sul Popolo d’Italia, il quotidiano del fascismo.

Dopo Tarquinia?

Dopo l’8 settembre del ’43 anche Gianni Brera è tra gli sbandati, comincia il periodo più discutibile della sua vita. Tornato a Pavia, sembra che avesse preso qualche contatto con gli ambienti antifascisti, ma non vi sono certezze. I Brera erano antifascisti, suo padre era stato consigliere comunale socialista a San Zenone Po, paese natio di Brera, e non ha mai preso la tessera fascista. Insieme al fratello, che rispetto a Gianni era più vicino alle posizioni socialiste, visse quel periodo in maniera confusa, , si rende conto di che cosa era il fascismo attraverso la Repubblica di Salò. In quel periodo commette un errore gravissimo, nel marzo del ’44 il federale fascista di Pavia lo convoca e gli propone di dirigere Il Popolo Repubblicano il settimanale del fascio repubblichino di Pavia. Brera è indeciso, ma alla fine accetta, perché il federale gli lascia intendere che il fascismo della Repubblica di Salò era molto meno dogmatico e che avrebbe goduto di una certa libertà nella direzione, vi avrebbero potuto scrivere anche fascisti non dichiarati. Brera lo dirige per quattro numeri, dopo si dimette o è costretto a farlo. L’ipotesi più plausibile è che la sua direzione, meno dogmatica e ortodossa, non fosse piaciuta ai fanatici del fascismo pavese. Le dimissioni non interrompono la collaborazione al settimanale, che continua ancora per qualche mese. Dopo questo periodo per Brera l’aria di Pavia si fa irrespirabile.

Perché?

Possiamo ipotizzare due motivi: il primo che avendo diretto quel settimanale fascista, fosse nel mirino degli antifascisti, mentre dall’altra parte i fanatici repubblichini lo vedevano come un frondista. Il 16 giugno del ’44 Brera cambia aria e passa clandestinamente il confine svizzero, viene assegnato al campo di internamento di Balerna, dove c’erano gli esuli antifascisti. Le condizioni di vita non erano facili, mangiavano poco, conobbe diversi antifascisti, in particolare i comunisti Attilio Bonacina e Cino Bemporad, i quali gli fecero capire che per lavare la macchia di aver diretto una testata repubblichina, cosa che nell’Italia successiva alla Liberazione non sarebbe passata inosservata, avrebbe dovuto rifarsi una verginità politica. Penso che Brera abbia vissuto una crisi interiore profonda, che si sia reso conto della gravità della direzione di quel settimanale fascista pavese, d’altro canto aveva una vera malattia dello scrivere, era un grafomane poliedrico, non lo fece per soldi o ambizioni personali, nella sua vita non desiderava altro che scrivere. Bonacina e Bemporad gli dicono che in Italia c’è un’esperienza partigiana importante come la Repubblica della Val d’Ossola, dove molti esuli italiani, tra i quali Giancarlo Pajetta e Umberto Terracini, rientravano per difenderla dagli attacchi nazisti.

E Brera che fa?

Accetta la proposta. Arriva a Domodossola nel settembre del ’44, il mese della Repubblica dell’Ossola, viene ricevuto all’albergo Terminus, dove c’era lo stato maggiore della repubblica partigiana, e sottoposto a un interrogatorio-processo da parte di Cino Moscatelli e Giulio Seniga, due figure importantissime della Resistenza. Avevano già acquisito informazioni, sapevano del suo passato e della direzione della rivista fascista, volevano accertarsi che non fosse un infiltrato, gli chiedono perché aveva fatto quella scelta e al termine dell’interrogatorio Giulio Seniga garantisce per Brera.

Si conoscevano?

No, probabilmente Seniga aveva capito che la scelta di Brera era stata vissuta all’insegna della confusione, in modo travagliato, e gli dà la possibilità di riabilitarsi, in realtà aveva ricevuto buone referenze da Cino Bemporad, che era un importante dirigente del partito comunista di Lugano, città dove vi era una forte concentrazione di comunisti espatriati, e da Attilio Bonacina, nome di battaglia Catilina. Brera fu assegnato alla brigata Garibaldi, quella dei comunisti, 2^ divisione d’assalto, 83^ brigata Luigi Comoli, intitolata a un partigiano fucilato dai fascisti nel ’44 nella piazza di Forni. Lavora all’ufficio stampa del governo provvisorio con il grado di aiutante maggiore, un ruolo militare importante, avendo alle spalle un corso di allievo ufficiale e l’esperienza nei paracadutisti, aveva un’idea di tattica e strategia militare.

Tutto così liscio?

No, in realtà il 1 dicembre del ’44 al comandante Iso, Aldo Aniasi, arriva la lettera di un certo Sandro Chiodi, ex compagno di università e tra i paracadutisti di Brera, il quale informa non solo della direzione del settimanale repubblichino di Pavia, ma lo accusa di essere stato un delatore grazie al quale sarebbe finito in carcere, ma sulla delazione non ci sono prove, infine accusa Brera di essere un doppiogiochista. Chiodi chiede ad Iso di poterlo interrogare o comunque di espellerlo dalla formazione partigiana. Aniasi finge di ascoltarlo mantiene la corrispondenza con Chiodi, ma alla fine si assume la responsabilità e chiude il caso.

La riabilitazione “politica” di Brera si limita al lavoro all’ufficio stampa?

Brera non si riteneva un eroe, non sceglie un nome di battaglia, continua a chiamarsi Gianni, anzi Gioann del Po, ha partecipato a operazioni belliche, è stato ferito anche al naso, infatti dopo la Liberazione scrisse il romanzo Naso Bugiardo. Il 6 aprile del ’45 è con altri partigiani in una casa a Valpiana, circondato dai nazisti riesce a salvarsi dopo uno scontro a fuoco. I nazifascisti volevano far saltare le principali centrali idroelettriche dell’Ossola, determinando una gravissima crisi del sistema industriale, inoltre avrebbero fatto saltare una parte del traforo del Sempione per coprirsi la ritirata e interrompere i collegamenti con la Svizzera. I partigiani vengono a sapere del piano e dei grandi quantitativi di esplosivo fatti affluire a Varzo, in val d’Ossola. Nella notte tra il 21 e il 22 aprile del 1945, Brera e altri partigiani si fanno carico di far saltare i depositi di esplosivo. Brera disegna molti schizzi in cui mostra le azioni da fare, individua le centrali da salvare, partecipa a tutta l’operazione di attacco e ad altre azioni rischiose. Il 23 aprile a Crodo per controllare una centralina telefonica, sfugge per un pelo ai nazisti. Il 24 aprile del 1945, per festeggiare la Liberazione, insieme al comandante Catilina, Gianni Brera firma come direttore l’edizione straordinaria dell’Unità delle valli ossolane, scrive parecchi pezzi, ma non li firma.

Dopo il 25aprile?

Tra il maggio e il giugno del 1945, gli viene affidata la stesura del diario storico partigiano della divisione d’assalto Garibaldi- Redi, che va dal marzo del ’44 all’aprile del ’45, un lavoro di circa 150 pagine, che raccoglie i diari delle varie organizzazioni partigiane sui quali scrivevano le azioni che avevano fatto, le perdite avute, le zone conquistate. Al suo fianco “vigila” il commissario politico Bellelli, nome di battaglia Modena. Brera rimette insieme tutto il materiale e mese per mese traccia i bilanci operativi, il diario esce anonimo ma la scrittura è sua.

Che cosa scrive Brera nel diario partigiano?

Usa spesso metafore sportive, sostiene che la lotta partigiana deve caratterizzarsi con azioni di guerriglia, non con lo scontro aperto frontale, perché non vi sono mezzi, usa l’espressione “fugone” partigiano, un termine che userà spesso nei suoi articoli sul calcio. Emerge forte la polemica politica con le divisioni partigiane cattoliche, che Brera chiama “l’opera Pia”, e monarchiche definite semicollaborazioniste. L’impronta politica di questi diari è fortissima, emerge un Brera laico, ateo e liberale.

Dopo la Liberazione cosa gli resta della lotta partigiana?

Alcuni anni dopo la Liberazione Gianni Brera voleva scrivere un libro sulla sua esperienza in Val d’Ossola, il titolo era In Svizzera senza le scarpe. Una storia partigiana. Scrive solo alcuni capitoli, vi sono contenute interessanti descrizioni di comandanti partigiani, Cino Moscatelli è chiamato il ciclista, ma non è chiaro il motivo. Nell’immaginario partigiano Cino Moscatelli viene associato a un’automobile rossa, che in realtà non è mai esistita, si spostava in auto, ma non era rossa, visto che Brera lo chiama il ciclista non è escluso che Moscatelli si muovesse anche in bicicletta. L’esperienza partigiana è rimasta per sempre nella sua vita, è stato un periodo formativo fondamentale. Come non rinnega il periodo da paracadutista nella Folgore, altrettanto fa con l’esperienza partigiana, non ama vantarsene, ma gli è rimasta dentro. Dopo la Liberazione, il Pci vuole affidargli la direzione di un quotidiano comunista di Novara, ma Gianni Brera non accetta, anche perché contemporaneamente gli arriva la proposta di Bruno Roghi di lavorare alla Gazzetta dello Sport, lui voleva scrivere di sport e con la fine della Resistenza considera chiusa la sua esperienza politica. Brera arriva alla Resistenza faticosamente, l’ha considerata una parentesi della sua vita, un modo per riabilitarsi e mettersi in pace con la coscienza, ma il Brera partigiano non dimentica e lo si capisce nel 1954.

Nel 1954?

Giulio Seniga è in rotta con il Pci, perché lo considera un partito revisionista, che non fa mai la rivoluzione annunciata. Seniga era responsabile del servizio d’ordine del Pci e braccio destro di Pietro Secchia, il vicesegretario del Pci. Il partito gli aveva fatto prendere il patentino di pilota, perché in caso di colpo di stato in Italia, Seniga aveva il compito di portare Palmiro Togliatti in Albania, in Austria o in Cecoslovacchia. Il Pci aveva acquistato un aereo cecoslovacco, il Sokol, che era costantemente parcheggiato all’aeroporto di Centocelle. Nel 1954 Seniga entra in rotta di collisione con il Pci togliattiano, ha un colpo di testa, ruba una parte della cassa del Pci, e dei documenti molto importanti, sperando che Pietro Secchia lo segua ed entri in rotta con Togliatti, ma Secchia lo sconfessa, è il 25 luglio del 1954. Seniga vorrebbe scappare in Svizzera, raggiunge Milano, la mattina del 26 luglio telefona a Brera, che allora era direttore della Gazzetta dello Sport, ein nome di un passato in cui Seniga si era fatto garante di Brera presso Moscatelli in Val d’Ossola,chiededi tenerlo nascosto in casa per qualche giorno, cosa che avviene. Brera non stava aiutando un rinnegato, un traditore, ma il partigiano “Nino” che aveva fatto la Resistenza con lui. Seniga e Brera erano due figure simili, che hanno buttato a mare una quantità di occasioni, il primo si bruciò definitivamente la carriera politica, Brera si dimise da direttore della Gazzetta a 35 anni, quando era in carriera, cambiò diversi giornali, passò al Giorno dove ritrovò Pietrino Bianchi un suo amico partigiano, che aveva fatto la Resistenza nell’Oltrepò pavese.

L’ultimo Brera che strizza l’occhio alla Lega?

E’ un’altra parentesi della sua vita controversa. Personalmente non credo che fosse un leghista ante litteram, aveva delle concezioni antropologiche molto discutibili, sosteneva che l’umanità si dividesse in razze. I leghisti erano troppo rozzi per Brera, era un intellettuale, non ha mai avuto abboccamenti con la Lega, è stato manipolato, lo hanno considerato un padre nobile, un loro precursore. Brera più volte su Repubblica ha voluto distinguere nettamente le sue posizioni padane dal leghismo. Però anche questa è una delle zone d’ombra della biografia di Brera.

Ci giocava o era convinto?

Era convinto, certo non si era reso conto che queste sue teorie per certi versi erano un po’ pericolose, che potevano essere facilmente strumentalizzabili, sotto il profilo scientifico insostenibili, non voglio dire che fosse fermo a Lombroso, ma non era andato molto oltre. Per lui c’era il nord, il sud era un’altra cosa. Era una personalità originale, non era facile andare d’accordo con lui, alla Gazzetta fece a cazzotti con Gino Palumbo, memorabili i suoi scontri con Antonio Ghirelli.

E’ stato un uomo fuori dal suo tempo?

Era un uomo lontano dalla civiltà industriale urbana, molto legato a un’idea di società rurale, per lui la vita era quella della Bassa padana, era legato alla vita contadina, gli piaceva andare a caccia, il cibo molto grasso, mangiare e bere molto, fare le ore piccole, uno che ha consumato la sua vita. E’ morto come avrebbe voluto, dopo una sera trascorsa con gli amici a mangiare e bere, raccontare storie, fumare.

Scrivere di sport lo ha spinto a viversi la società industriale?

Era un aspetto complementare del suo lato contadino, a lui piacevano i calciatori rudi, quelli che avevano poca tecnica, ma menavano. Rivera è definito “abatino”, per il suo modo di giocare incarnava la società industriale. Brera amava molto Gigi Riva, quando si frattura la gamba lo paragona a Ettore, l’eroe dell’Iliade, amava la scuola calcistica italiana improntata alla difesa legata alle zolle, diceva che “l’italianuzzo” doveva difendersi più che attaccare. Perché detestava Sacchi? Era l’incarnazione di un calcio ricco, potente, aggressivo, industriale. Brera è sempre stato coerente con le sue idee.

Ha pagato per questo?

Si dimise da direttore della Gazzetta, se non lo avesse fatto forse gli avrebbero affidato la direzione di un grande quotidiano, anche se lui era un disordinato, non era un grande organizzatore, però sarebbe stato in grado di dirigerlo, gli uomini li sapeva scegliere bene. Nella vita ha sempre avuto un grande rammarico, emergere come scrittore, ma non aveva il tempo, era schiavo della sua Olivetti, doveva produrre una gran quantità di articoli, perché era uno spendaccione, offriva lui quando si ritrovava tra amici a bere e mangiare.

Non è diventato un grande scrittore perché in Italia un giornalista sportivo è sempre considerato uno scrittore di serie B?

Un po’sì. Tutti i lunedì, anche gli intellettuali più snob andavano a leggere che cosa scriveva Brera, magari non leggevano tutto, solo le prime venti-trenta righe, davano un’occhiata al linguaggio, a che cosa si inventava. Umberto Eco in modo sprezzante definì Brera il Gadda dei poveri, invece Pasolini e Mario Soldati lo amavano molto.

Brera mancato scrittore non pubblica con una casa editrice di prestigio perché dopo la Liberazione non si schiera con il Pci?

Penso di sì. Se lui avesse continuato la sua “militanza” con la stesura del diario partigiano e avesse scritto un romanzo partigiano, sarebbe stato incoraggiato a proseguire e avrebbe trovato anche un importante editore che glielo avrebbe pubblicato. C’era allora un’editoria a sinistra molto forte. Il Pci aveva manifestato interesse per lui, voleva farne un proprio intellettuale, gli voleva affidare la direzione di un giornale politico, gli riconosceva delle qualità, ma fu Brera a rifiutare.