La chiave di interpretazione dell’ultimo libro di Sergio Luzzatto, dedicato alla breve esperienza di partigiano di Primo Levi (Partigia. Una storia della Resistenza, Mondadori, pp. 373, euro 19,50), e soprattutto a quanto gli si mosse intorno sta nel controcanto che la ricezione pubblica del testo ha istituito tra la minuziosa ricostruzione di un episodio secondario della Resistenza italiana e il sensazionalismo con cui oramai ogni vicenda che ad essa si richiami viene assunta nel tritacarne della comunicazione mediatica. Poiché a leggere quanto è narrato si ha come l’impressione di trovarsi dinanzi ad una complessa e stratificata partitura teatrale, dove ognuno dei soggetti chiamati in causa assume un ruolo, perlopiù tragico, che a tratti diventa un corpo a corpo con il proprio destino. Molto di più non verrebbe voglia di dire, in tutta sincerità, di un volume che va ad aggiungersi al vasto corpus di studi sulla vita e le opere del chimico ed ex deportato torinese. Sul testo, sui suoi contenuti e, soprattutto, sul fatto che rimandi a Levi, in termini non solo strettamente celebrativi, si è innescata da subito una prevedibile quanto sgradevole polemica, nella quale la pubblicistica di destra e revisionista si è infilata con suo massimo giovamento.

Pregiudizi mediatici

I fatti ricostruiti dallo storico, che da tempo ha avviato una riflessione non priva di accenti polemici nei confronti della cosiddetta «vulgata resistenziale» e della sua ricezione nelle memorie repubblicane dal dopoguerra ad oggi – suo è il volumetto su La crisi dell’antifascismo (Einaudi) già nel 2004 -, sono noti. Primo Levi, insieme ad altri ebrei, alla ricerca di una via di salvezza dopo la catastrofe dell’8 settembre 1943, si era rifugiato in Valle d’Aosta, da dove poi aveva aderito ad una delle prime bande che vi operavano, presso il Col de Joux, in un regime di scarsità assoluta di mezzi, di mancanza di progetti e di prospettive, di isolamento umano e, molto spesso, di marcato e pericoloso volontarismo. Il gruppo, numericamente modesto, si rifaceva al Partito comunista internazionalista e all’anarchismo. Nella confusione generale era stato ben presto infiltrato da spie fasciste che di fatto ne avevano decretato la sconfitta prima ancora che potesse creare seri problemi alle autorità repubblichine. Il 13 dicembre, infatti, Levi ed altri cadevano in mano ai militi di Salò. Da lì, poi, la sua discesa agli inferi di Auschwitz.

Luzzatto, benché racconti con una notevole acribia l’ellissi degli eventi, non è interessato al destino dello scrittore bensì ad un episodio incorso pochi giorni prima della cattura. In quest’ultimo caso il gruppo armato al quale il giovane chimico torinese apparteneva aveva provveduto a fucilare due giovanissimi componenti, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, rei di essersi comportati in maniera banditesca nei confronti della popolazione locale. I capi di imputazione non sono in verità noti ma è certo che la condotta dei due avesse creato frizioni interne al gruppo e, soprattutto, il rischio dell’isolamento nei riguardi dei civili. In Levi, cauto e pieno di pudore, in questo come in ogni caso delle tante cose che i suoi libri ci hanno raccontato, l’evento in sé eccezionale è ricordato in alcune pagine del Sistema periodico. Più di tanto, tuttavia, l’autore torinese non dice, se non che si trattò di un episodio dolorosissimo, per la sua e l’altrui coscienza. Non è dato conoscere quale ruolo egli abbia avuto nell’esecuzione della sentenza. Nei mesi scorsi già Frediano Sessi, nel suo bel volume su Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), si era soffermato sulla punizione «sproporzionata», comminata ai due reprobi. Nulla di nuovo, quindi, sia nell’indagine storica che nella sua ricezione pubblicistica. A dare il tono, e di riflesso a dettare importanza, all’opera di Luzzatto è stato tuttavia un lungo articolo di Paolo Mieli sul «Corriere della Sera». Come d’abitudine in questi casi, quando il giornalista valuta d’interesse un testo, ne fa derivare non solo un giudizio lusinghiero, eleggendolo a paradigma di qualcosa che fino alla sua pubblicazione sarebbe rimasto altrimenti omesso o comunque rimosso. Da ciò, quindi, il richiamo al fatto che esso costituisca una indagine su «vicende imbarazzanti per la retorica della Resistenza».

L’intera impostazione dell’articolo gioca intorno alla falsa dialettica tra narrazione ufficiale e coni d’ombra. Il convitato di pietra è Giampaolo Pansa, autore prolifico, più che discusso, il quale ha dato i natali ad un filone fortunato della letteratura avversa alla Resistenza, recuperando alcune matrici della pubblicistica di derivazione neofascista. E che del libro di Luzzatto si debba parlare in termini di prodotto pubblicistico lo attestano tanti fatti, a partire dallo scalpore suscitato dalle polemiche fin qui prodottesi, dalle prese di posizione preventive (senza averne letto neanche una pagina), dai rituali di accuse e risposte, fino al ripetuto fuoco di fila tra coloro che ci vedono un grande libro («una pietra miliare della letteratura», recita ancora il Corriere) e altri che lo condannano come un’operazione revisionista tout court.

Quel che del volume dello storico colpisce sono in particolare alcune cose. Intanto il sottotitolo medesimo, «una storia della Resistenza», che al lettore potrebbe sembrare una rivisitazione complessiva del fenomeno resistenziale, quando invece è un esempio di indagine laboriosa su di un microevento. La sproporzione è in sé sospetta, poiché Luzzatto non introduce, per il tramite di esso, elementi di una nuova metodologia di indagine, come già ci aveva abituato un autore quale Carlo Ginzburg. Parrebbe invece volere fare passare un giudizio globale sulla lotta di Liberazione attraverso la cruna dell’ago di un singolo episodio.

Una sproporzione sospetta

Il criterio adottato è quello di partire da Primo Levi, chiamato in causa come movente della ricerca, oramai in sé più personaggio che non persona concreta, quindi destinato a fare scalpore per il fatto stesso che il suo nome sia evocato, per poi allontanarsi da esso e muoversi verso il target più ampio della Resistenza. Nei confronti della quale il giudizio di Luzzatto sembra scindersi: con un atto di fedeltà ripetuta, riafferma la centralità che essa ha nella coscienza repubblicana (il «momento fondativo dell’Italia libera») e in quella sua personale. Ma l’intero testo, in molteplici passaggi, sembra animato da una irrisolta acrimonia, non tanto contro i protagonisti di quel tempo bensì quanto verso coloro che sono ritenuti essere i responsabili di una lettura del passato tanto celebrativa quanto oleografica. Quasi a volere dire che ad essa si possa forse sostituire una specie di capovolgimento del giudizio. Qui Luzzato si fa a tratti, per così dire, revisionista, soprattutto quando sovrappone alle dolenti riflessioni di Levi sia l’impressione che esse contengano una reticenza sia che segnalino il sussistere di un nesso diretto tra la caduta nel gorgo del Lager e il senso di sconforto, se non di sbandamento, che aveva preceduto la cattura da parte delle milizie fasciste. Quasi a lasciare chiaramente intendere che la coscienza dell’enormità di un crimine commesso contro i propri pari sia stata alla radice dell’incapacità di combattere contro nemici tanto bellicosi quanto organizzati nonché di una demoralizzazione pressoché totale.

Per interposta persona

In tutto il volume Luzzatto ripete acriticamente se non quasi apologeticamente la categoria di «guerra civile», assumendola ad ermeneutica dell’intera vicenda resistenziale. Se ne intravvede così una debolezza di impianto analitico, trattandosi di una forzatura bella e buona. Se la ricostruzione dei fatti è quindi intensa ad essa si contrappone la cornice del giudizio di valore, dove l’uccisione di Opezzo e Zabaldano assurge a paradigma di un vizio di origine che avrebbe informato l’impresa resistenziale. Qui l’autore sembra dovere lottare con se stesso, con la sua formazione politica e culturale, quasi che non riesca a fare i conti, se non con tratto accesamente polemico, con il lascito resistenziale.

Viene quindi da pensare che, come a volte accade, Luzzatto voglia parlare di sé e della sua professione per interposta persona, biografando altri. Che ci sia una esigenza generazionale nella storiografia italiana, segnata dal dovere rispondere a più di trent’anni di offensiva revisionista, lo aveva già inteso a suo tempo Claudio Pavone. Ne era derivata una riflessione di ampio respiro, priva di ambiguità. Quanto il lavoro di Luzzatto sia debitore di tale impostazione, al di là della cortina fumogena delle diatribe pubblicistiche, è francamente difficile capirlo. Troppe tentazioni accompagnano il polemista al rigore del ricercatore, due identità che coesistono nella medesima figura autoriale.