Capita che le storie delle donne e degli uomini traccino cammini emblematici per ogni tempo, alcune volte sono vicende che devono essere scovate nelle pieghe della grande storia, da cui fanno capolino solo dei piccoli indizi, come una foto. La circostanza raccontata dallo storico Matteo Petracci nasce proprio da uno scatto: un gruppo di partigiani, alcuni neri, in una comitiva costituita quasi interamente da stranieri che combatte nei pressi di Macerata, sul Monte San Vicino. La vicenda prende forma nel saggio storico Partigiani d’Oltremare. Sottotitolo Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana (Pacini Editore, pp. 191, euro 15).

La necessità del regime di modellare l’immaginario coloniale avvia la «Mostra triennale delle terre d’oltremare» a Napoli, una sorta di «zoo umano» dove riprodurre le ambientazioni e i costumi delle conquiste africane dell’Italia fascista, anche attraverso figuranti di quelle terre che vengono deportati e costretti a viaggi estenuanti per poi vivere in un villaggio ricostruito (capanne di sterco e argilla, moschea), in un’area circoscritta e con fortissime limitazioni, per attenuare il rischio di «delitti contro il prestigio della razza». Inaugurata nel ’40 alla presenza del Re, nel ’43 i nativi vivono come internati, terrorizzati dai bombardamenti Alleati e con il razionamento alimentare. Vengono trasferiti nel «Campo indigeni di Treia», nelle Marche centrali e scappano per unirsi alla Banda Mario.

L’Italia entra in guerra, i nativi sono bloccati a Napoli e poi trasferiti. Parrebbe la scelta più difficile quella di stranieri con la pelle nera di vagare per l’Appennino, in guerra, abbandonando un più sicuro stato di semilibertà.
Si trattò effettivamente della scelta più difficile. Nazisti e fascisti di Salò si erano già insediati nel territorio e, rispetto agli evasi dai campi, la popolazione civile era stata già avvisata: premi in denaro per chi ne permettesse la ricattura; fucilazione per coloro che avessero fornito loro sostegno. Necessariamente qualcuno deve averli nascosti, indirizzati: contadini, vecchi antifascisti, fiancheggiatori del movimento di resistenza. In tal modo riuscirono a raggiungere la Banda Mario, un gruppo partigiano «multietnico» e mistilingue. La loro scelta rompeva i confini politici ancor prima che quelli geografici. Somali, eritrei ed etiopi infatti erano considerati «sudditi coloniali», definizione che traduce giuridicamente la volontà di privarli di soggettività politica. Entrando nel gruppo partigiano rivendicarono il diritto di smettere di essere oggetti della storia e di divenirne soggetti.

Nel libro parrebbe che fra le intenzioni del regime ci sia quella di istruire gli stranieri «invitati» alla Mostra d’Oltremare per poter far loro svolgere un’azione di propaganda verso le popolazioni indigene. Non tutti però, malgrado ne abbiano la possibilità, si affrancano dai fascisti.
I fattori sono tanti, come la presenza di neonati, chi mai sarebbe andato in montagna portandoseli dietro? Bisogna anche considerare che, al momento di essere portati in Italia, molti delle donne e degli uomini da imbarcare furono scelti anche in base ai «meriti» conquistati e ai servizi resi all’Italia. Tuttavia, con l’arrivo a Napoli, la segregazione razziale e il peggiorare della situazione dovuto alla guerra, i sentimenti mutarono, tanto che in diversi scontarono periodi di carcere per insubordinazione o ribellione. Allo stesso tempo i documenti ci dicono che altri restarono fedeli al fascismo, e ciò non deve stupire. Per alcuni il rapporto con i colonizzatori aveva rappresentato anche un’occasione di ascesa sociale. Considerare tutti i colonizzati come indistintamente vittime dei colonizzatori costituisce un’interpretazione semplicistica.

La banda di Mario Depangher è costituita da tanti stranieri, somali, inglesi, jugoslavi, sovietici, e inoltre c’erano degli ebrei. Un movimento internazionalista o spontaneo?
La costituzione di questo very mixed bunch – secondo la definizione data da un ufficiale inglese nelle sue memorie, ndr – è stata possibile a partire dalla presenza nel territorio di numerosi campi di prigionia e di internamento. L’aggregazione fu però spontanea. Ideali internazionlisti erano comunque presenti in molti dei componenti della Banda, a partire dallo stesso comandante, Mario Depangher, un combattente antifascista che aveva trascorso molti anni in carcere e al confino e che, con lo scoppio della guerra, era stato internato nelle Marche.

Durante le ricerche Matteo Petracci ha conosciuto la figlia di Aden Scirè, uno dei partigiani di cui si parla nel libro. Lei ha raggiunto l’autore sul Monte San Vicino per conoscere i luoghi dove ha combattuto il padre.
Ricordo ancora la prima email di Shukri in cui mi spedì la foto del gruppo di partigiani scattata all’Abbazia di Roti con il volto del padre cerchiato. Restai letteralmente sbalordito. Mi raccontò che il padre le parlava della sua esperienza da partigiano, dei monti dove vivevano e dei compagni di lotta. Lei, poco più che bambina, non aveva mai pensato fosse importante farsi dire dove, esattamente, quei fatti si erano svolti.
Una volta morto il padre e dopo la fuga dalla Somalia in seguito allo scoppio della guerra civile, ha cercato documenti e testimonianze, invano. Finché in rete ha rinvenuto la foto. Poi ha cercato me.

Siamo scossi da forze revisioniste che tentano di stravolgere i significati di alcune vicende per destrutturare le responsabilità politiche e minimizzare le colpe di una parte degli attori. Un caso eloquente citato anche nel libro è il colonialismo.
Basti pensare che la documentazione disponibile, conservata presso l’archivio del Ministero degli affari esteri, è prodotta dai colonizzatori. I funzionari del ministero dell’Africa italiana scrissero quei documenti. È quindi una autorappresentazione del colonialismo e in essi sono ben presenti i pregiudizi verso le popolazioni colonizzate e l’opera civilizzatrice dell’uomo bianco.

Petracci vive a Macerata, salita alle cronache per la tentata strage neofascista di Traini e per una campagna elettorale sui flussi migratori. Il razzismo ha origini antiche ma è legato efficacemente alla contemporaneità e, in un certo senso, sembra legittimarsi attraverso gli strumenti del progresso.
Considero il riemergere di sentimenti razzisti e xenofobi come un attentato alla pace. La diffusione dei social network ha permesso a chiunque di esprimere giudizi prima taciuti. Tuttavia credo che molta responsabilità sia imputabile ai tradizionali mezzi di informazione, che spesso strizzano l’occhio a certi sentimenti alimentando paure e pregiudizi.

Tornando a Macerata, negli stessi minuti in cui era in corso l’attentato, uno dei maggiori giornali locali on-line se ne uscì con un articolo in cui si attribuiva la responsabilità degli spari a una fantomatica automobile con due neri a bordo.
Neri che sparavano ad altri neri, in una sorta di regolamento di conti consumato tra le vie di una pacifica provincia. Anche il manifesto, in un reportage di quei giorni, notò l’assurdità di questa falsa notizia. L’articolo fu poi semplicemente cancellato, senza spiegazioni né scuse. Oggi la linea editoriale non sembra affatto cambiata.