«La guera è n’artra cosa, devi combatte e lo sai che puoi morì, te devi guardà alle spalle, ce devi avè l’occhi pure de dietro». A parlare è Mario di Maio, detto «Er nanetto», poeta-partigiano di San Lorenzo, rione combattivo, roccaforte della Resistenza romana. La metafora della «guerra al virus» non lo convince. La guerra, ribadisce, «è n’antra cosa». Non guanti in lattice e mascherine, ma chiodi a 4 punte nel tascapane, bombe a mano, volantini ciclostilati. «Qui a San Lorenzo i fascisti manco c’entraveno, o meglio, nun ce li facevamo entrà», continua Mario, 92 anni. «Io della guera non c’avevo paura, conoscevo il nemico, lo vedevo, mò sto virus non ha la divisa, non so ’ndo sta… adesso sì, ho paura. Ma ce la dovemo fa».

MARIO VUOLE RICOMINCIARE a fare riunioni e incontri, ha la smania di scendere di nuovo in piazza perché «dobbiamo riconquistà la libertà, ce la stamo a fa levà!». La comunità di San Lorenzo si è stretta intorno al nanetto dal cuore d’oro. Gli portano la spesa a casa. «A Pasqua anche la Colomba e il cioccolato, mi stanno tutti vicini, pure i Carabinieri mi aiutano, ma con loro eravamo amici pure durante la guerra».

Rodolfo Lai è un partigiano del Fronte clandestino di resistenza dei Carabinieri, più noto come Banda Caruso. Risponde al telefono dalla sua casa di Nuovo Salario, quartiere a nord-est di Roma. A 15 anni – e per i 40 anni successivi – ha lavorato per un’azienda di telecomunicazioni, durante la guerra consegnava telegrammi in giro per la capitale, pedalava ininterrottamente con una bici da donna sui sampietrini di una Roma ‘città aperta’ solo a parole. «Ero giovane e pieno di ideali, diventai così portaordini, guardavo, sbirciavo, consegnavo, ritiravo». Un giorno, racconta, «vicino al Quirinale tirai una bomba a mano verso due parà tedeschi per difendere un Carabiniere che avrebbero fucilato, ma mai avrei pensato che a 75 anni dalla nostra Resistenza – scrivilo maiuscolo! – ci saremmo trovati a fare resistenza a un nemico invisibile, subdolo».

Per il partigiano Rudi, oggi resistenza «è sinonimo di pazienza e responsabilità». Prima del lockdown andava nelle scuole, scendeva dalla cattedra, stimolava i ragazzi a fare domande, raccontava di quella tanto agognata libertà, e vuole ricominciare a farlo, ma senza fretta, quando si potrà: «Dobbiamo ancora aspettare».

«COSA VUOI CHE TI DICA? Quello che si deve fare, si fa…». A parlare è mamma Agnese, la protagonista di L’Agnese va a morire, il libro di Renata Viganò portato sullo schermo da Giuliano Montaldo. Partigiano, nome di battaglia Leo, regista tra gli altri di Sacco e Vanzetti, per Montaldo le regole di contenimento sono legittime, ma «solo sulla base di una ricostruzione di una coscienza collettiva che miri a un senso di responsabilità condiviso e con l’assoluta protezione delle libertà individuali». La metafora guerresca della lotta al virus non convince neanche lui. «Nella guerra ci sono gli Stati neutrali, si conosce il nemico e l’allarme suona quando la ricognizione è finita, quando si può uscire dai rifugi, dai tunnel, qui l’allarme lo aspettiamo da un pezzo». La sua voce è calma e rassicurante. «Noi questa terra l’abbiamo trattata male, molto male, bisogna essere uniti, forti e coraggiosi. Dobbiamo riportare il mondo alla bellezza di come lo abbiamo trovato noi dopo la Liberazione». Per lui, oggi i partigiani «sono i giovani, quelli che scendono in campo per la democrazia reale, che mettono l’essere prima dell’apparire».

PER LUCIANA ROMOLI, classe 1930, «i partigiani sono gli infermieri, i medici, quelli che danno la vita per gli altri, come abbiamo fatto noi durante la Resistenza!». Luce, questo il suo nome di battaglia, era una staffetta della Brigata Garibaldi. A 8 anni è stata espulsa da tutte le scuole del regno per aver difeso Deborah, una compagna di classe ebrea. «Il mio primo atto politico», afferma con orgoglio. «Sono stata una mondina, a Vercelli, ho combattuto per portare le otto ore lavorative nelle risaie, le mie compagne non volevano scioperare ma io dicevo: “il padrone le gambe dentro l’acqua non ce le mette di certo!”». Luciana è battagliera. Anche lei confida nei giovani. «Noi nella ricostruzione andavamo nelle borgate, nelle baracche, parlavamo con le persone e poi pretendevamo che lo Stato desse case alla gente, voi dovete fare lo stesso. Non serve l’elemosina, serve la solidarietà. Le scuole sono chiuse, ma quelle famiglie che puntavano sulle mense scolastiche perché non sanno come dare da mangiare ai bambini come faranno?».

DELL’INGIUSTIZIA SOCIALE, amplificata dall’epidemia, si preoccupa anche Fabrizio De Sanctis, presidente dell’Anpi provinciale di Roma. Anche lui invoca la solidarietà, non la carità. Solo così si potranno fronteggiare le conseguenze del virus. «La crisi economica è annunciata come la più vasta dal 1929 e più profonda di essa. Di fronte a questa crisi abbiamo l’obbligo di attuare fino in fondo i principi fondamentali della Costituzione, testamento scritto della Resistenza, assicurando a tutta la nostra società dignità sociale, nell’uguaglianza senza distinzioni di sorta». Altrimenti, «i rischi di disgregazione sono dietro l’angolo». Occhio alle torsioni autoritarie, avverte De Sanctis: «L’esempio dell’Ungheria di questi giorni, non degli anni ’20, deve essere da monito per tutti i sinceri democratici ed antifascisti».

Non ha bisogno di patenti di antifascismo, Iole Mancini. Che ci parla da un casale in aperta campagna. Cento anni da poco compiuti, partigiana, torturata a via Tasso da Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, e non solo da lui. Volevano costringerla a dire dove si nascondesse il fidanzato Ernesto Borghesi, gappista. «La guerra è una cosa terribile, dopo tanti anni il ricordo rimane così vivo, io a volte me la prendo con me stessa perché non riesco a non pensarci, non riesco a distrarmi dalla memoria». La voce di Iole è inconfondibile, dolce. Il respiro della storia, gli odori delle case delle nostre nonne, le foto di repertorio, tutto sembra essere racchiuso in questa donna, il passato trova il punto d’unione con il presente.

SCEGLIE LE PAROLE con cura: «Chi accosta questo periodo tragico alla guerra non capisce niente, la guerra è così sanguinosa. Uccidi senza sapere chi è quel povero cristo che hai di fronte, perché è un nemico». Oggi invece «il nemico è dappertutto e l’unico sistema che hai per difenderti è cercare di non avvicinarti agli altri, è una lotta senza quartiere, ma ce la faremo». Ce la faremo, ripete Iole. «Voi giovani tornerete a rotolarvi sui prati. A me piaceva tanto farlo da ragazza, ora non posso più, mi limito a camminarci sopra, con calma, quando non tira troppo vento».