Di te si dice che sei una fotografa comunista. Cosa significa?
Diciamo che sono una fotografa che in qualche modo si impegna, cercando di fare qualcosa di utile. E in passato qualcosa si riusciva a fare, anche se non so quanto, visto come ci ritroviamo. Non è che abbiamo ottenuto molto, insomma. Ci eravamo illusi di cambiare il mondo anche con la fotografia, invece. Oggi non lo credo più possibile. Stiamo regredendo. E’ molto triste.

Come si concilia la militanza politica con il fotogiornalismo?
Le mie sono foto partigiane. E’ inevitabile.

Quindi quando corri il rischio di realizzare un’immagine che non condividi politicamente, non scatti?
Ho questa tendenza. O comunque devo farmi violenza per essere il più obiettiva possibile. La militanza e certe convinzioni politiche hanno ancora abbastanza influenza sulle mie foto. Non è un mistero e non a caso io lavoro solo per determinati giornali.

Mi racconti il tuo rapporto con il manifesto?
Io ho cominciato a lavorare per il manifesto negli anni ’80. Loro sono nati nell’aprile del ’71, ma nei primi anni c’erano solo illustrazioni, non fotografie. La fotografia non era contemplata. Penso che a Rossana Rossanda non piaccia la fotografia. Per accompagnare i suoi articoli lei vuole sempre disegni, non foto. Io già lavoravo per L’Unità e Paese Sera che allora era un bel giornale. E un giorno mi sono avvicinata al manifesto. Pagano molto poco le fotografie ma è una mia scelta e per me va bene così.

Perché fotografi principalmente in bianco e nero?
Io non amo molto il colore; ho fatto tanto colore, ma non amo farlo. Non mi piace neppure guardarle le fotografie a colori. Il bianco nero è essenziale. Il colore sminuisce la foto, distrae. Il rosso non è quel rosso, il giallo poteva essere diverso. Anche il bianco e nero pone in parte questo problema, ma le tinte sono ristrette: c’è il bianco, c’è il nero, c’è il grigio. Stop. E’ una sintesi della realtà. Non una semplificazione, anzi.
Penso che il bianco e nero si valorizzerà sempre di più. Già si vede nelle riviste, in mezzo al colore, il reportage in bianco e nero. Anche nel cinema amo molto il bianco e nero. Adoro il periodo dei noir americani del dopoguerra. Dei bianchi e neri stupendi.

So di un tuo aspetto meno conosciuto. Ogni tanto lasci scioperi e fabbriche e ti rintani nei musei.
Si, come tutti gli Scorpioni vivo queste contraddizioni. Io in genere mi butto in mezzo alle manifestazioni e magari rischio. Come l’altro giorno quando i precari hanno visto che li fotografavo mentre stavano incendiando i cassonetti e mi sono venuti addosso in sette o otto dicendo che poi avrei dato le foto alla polizia. Io non do le foto alla polizia. Assolutamente no! Gli ho detto invece di fare attenzione perché nelle finestre vicine potevano esserci poliziotti che li stavano fotografando con i tele. Dopo dieci minuti sono riuscita a convincerli, ma me la sono vista brutta.
E così ogni tanto stacco con questi ritmi e mi rifugio nei “miei” musei. Lì sto benissimo. Mi sento protetta. Io non vedo le opere d’arte come cose inanimate. Quadri e sculture le vedo come cose vive. Aver frequentato da piccola lo studio di mio zio pittore ha avuto il suo peso. La prima foto nei musei l’ho fatta nel ’68 quando sono andata al museo Manzù ad Ardea. Ormai sono trent’anni che lavoro a questo progetto: “L’arte e/è chi la guarda”. Una serie di immagini che provano a raccontare il linguaggio muto che corre tra un’opera e chi la guarda.
E a Parigi dove nessuno mi conosceva ho avuto una bella soddisfazione. In Italia se non sei di un certo giro non hai grandi possibilità di pubblicare libri o fare mostre. A Parigi io andai con il mio portfolio, una quindicina di foto scattate nei musei. Era il marzo del 1992. Le mostrai alla direttrice di una delle più belle gallerie della città . Io non la conoscevo. Lei non fece nessun commento, ma dopo due mesi mi telefonò. Mi disse che le foto erano piaciute. Volevano una cosa un po’ diversa dai soliti reportage, anche bellissimi, di cui erano pieni. Così venni invitata alla Biennale della fotografia. C’era Ghirri, Mulas e la sottoscritta.
Qui in Italia non sarebbe stato possibile. Qui, se non fai parte di un certo giro non hai spazio. Così le mostre sono sempre quelle, i nomi sono sempre quelli.

Tu hai lavorato molto per il vecchio Pci. Feste dell’Unità, congressi, lo fai ancora?
No. Una volta il partito commissionava i servizi, pagava vitto, alloggio, viaggio e naturalmente il servizio. Per qualche anno ha continuato anche il Pds. Poi hanno smesso. Almeno non li commissionano più a me.

È vero che D’Alema ha un brutto rapporto con i fotografi?
Sì, non ha in simpatia i fotografi e neppure i giornalisti. Non è un mistero. Del resto le foto di lui che si vedono in giro sono brutte. Dentro la sezione dei Ds in via dei Giubbonari, a Roma, entrando si vede una foto grande, un manifesto, di D’Alema, che è veramente brutta. Sembra l’uomo Chlorodont: sorridente, pelle liscia.
Due o tre anni fa sono andata al Pds per proporre delle foto che avevo fatto a D’Alema e Cacciari. Non le hanno volute. Hanno detto che si vedevano troppo le rughe, che bisognava non farle vedere. Ho pensato che era come con Berlusconi, mettiamo un retino davanti all’obiettivo, una calza. Io mi rifiuto di fare queste foto. Preferisco i miei operai, le fabbriche, le manifestazioni.

E il reportage internazionale? Tu sei stata, tra l’altro, in Sudamerica, in India, in Russia.
Io ho girato mezzo mondo, ma adesso non lo farei più. Sulla Spagna, ad esempio, ho un archivio che penso faccia gola a molti. Quando Francisco Franco era ancora in vita io già avevo fatto delle foto. Sono stata a Burgos, dove hanno fatto il famoso processo, insomma, ho un bel po’ di materiale sulla Spagna, ma adesso non varrebbe più la pena. Ci sono agenzie che se ne stanno lì da mesi, aspettando il fatto. Con altri mezzi e con altri appoggi.
No, non è più il tempo del reportage d’autore. E poi basta guardarli i reportage di oggi.
Brutte copie di cose già viste, sembrano i nipotini di Salgado.