L’iter della legge di bilancio procede al Senato, quello della proposta Letta, che riguarda sì la manovra ma anche e forse soprattutto il Colle, invece segna il passo. Le audizioni nelle commissioni competenti inizieranno venerdì con i commercianti. Il ministro dell’Economia Franco chiuderà la serie e poi, il 23 novembre, arriverà il parere delle commissioni. Nel frattempo governo e maggioranza si daranno da fare per scremare il migliaio circa di proposte di modifica. Di fronti aperti ce ne sono moltissimi ma i veri nodi dello scontro sono due. Quello principale è la destinazione degli 8 miliardi stanziati per la riforma fiscale.

I partiti della maggioranza caldeggiano progetti opposti, che differiscono tutti dal progetto del governo: utilizzare l’intera cifra per tagliare l’Irpef dei redditi più alti e l’Irap. Per la sinistra, dichiara la capogruppo di LeU al Senato De Petris, quei miliardi devono servire a «tagliare le tasse su lavoro dipendente per i redditi medio bassi». Il Pd è meno drastico ma almeno l’indirizzo sembra lo stesso: «L’obiettivo è mettere più soldi nella busta paga degli italiani, a maggior ragione oggi perché attaccate da una insidiosa inflazione», promette la presidente dei deputati Serracchiani. Salvini, fosse per lui, metterebbe «tutti gli 8 miliardi per partite Iva, autonomi e commercianti». Alla fine se ne occuperà un tavolo al Mef, dalla settimana prossima. Con i partiti di maggioranza su posizioni così distanti il governo dovrebbe riuscire facilmente a imporre la sua linea.

Il secondo nodo è la Flat Tax al 20% (anche se ufficialmente si dice 15%) per i redditi fino a 100mila euro, ultimo cavallo di battaglia della Lega. I fondi però mancano e il governo si è premurato ieri di ripetere che non verrà aggiunto un euro in più. Bisognerebbe spostare quelle risorse dal Reddito di cittadinanza alla Flat Tax come chiede appunto Salvini ma significherebbe arrivare a uno scontro dirompente con i 5S. In teoria la proposta del Pd, un tavolo di maggioranza per evitare conflitti all’arma bianca e «blindare la legge di bilancio», avrebbe dunque senso. La capogruppo Pd al Senato Malpezzi ieri la ha proposta ufficialmente ai colleghi e nessuno le ha detto di no: «Non ho trovato muri e barriere».

Questa però è ordinaria amministrazione. Una riunione dei capigruppo di maggioranza quando si sta per varare la legge più importante dell’anno è nell’ordine delle cose. Ma nonostante gli auspici corali del Pd, i cui esponenti hanno ieri bombardato le agenzie di stampa, non è affatto detto che porti poi a quel tavolo dei leader della maggioranza che dovrebbe riunirsi con Draghi per sciogliere i nodi della manovra e poi, senza Draghi, tornare a sedersi all’inizio di gennaio per scegliere, tutti insieme appassionatamente, il prossimo presidente della repubblica. E, nel caso si trattasse di Draghi Mario, anche il prossimo capo del governo. Fino al vertice dei capigruppo nessuno obietta, anche se l’utilità dello stesso resta da dimostrarsi. Quando si arriva al passo successivo gli ostacoli spuntano come funghi.

Il primo scoglio è proprio Draghi. Uno degli scopi del tavolo, per Letta, sarebbe proprio rimettere in gioco i partiti, trarli fuori dal limbo delle dichiarazioni sparate tanto per dimostrare di esistere ma ininfluenti nel quale vegetano da mesi. Tutti insieme potremmo tornare a toccare palla, è più o meno il ragionamento del leader del Pd. Il premier però non ha intenzione di aprire una contrattazione a tutto campo sulla manovra con i leader e tra i leader. Il tavolo non avrà mai la sua benedizione.

Poi c’è Renzi. Vincolare manovra ed elezione del presidente è «un errore politico», fa sapere. Nulla di strano: il conclave sul presidente metterebbe all’angolo proprio lui, lo renderebbe aggiuntivo e superfluo. Tutto il contrario della manovra ad ampio respiro che ha in mente. Più che il nome del prossimo presidente, per lui, è essenziale essere il regista dell’operazione e mettere le cose in modo che a decidere siano pattuglie centriste. Conte infine non si sottrae apertamente ma chiede di aggiungere all’elenco qualche riformetta costituzionale.

Solo piccoli aggiustamenti, precisa l’ex premier, come la sfiducia costruttiva. Con poco più di un anno di legislatura di fronte la proposta è quasi surreale. Sembra fatta apposta per tirare un colpo a casaccio non sapendo bene come trarsi d’impaccio. Lo si può capire: senza controllo sui gruppi, come potrebbe l’ex premier concordare un capo dello Stato con Berlusconi, Renzi e Salvini e poi imporlo alle riottose truppe?