Per il quarto anno consecutivo si è svolto a New York il Bushwig festival. Bushwig è un gioco di parole che mette insieme la radice di Bushwick, quartiere di Brooklyn vibrante di subcultura e di quell’underground per cui New York è famosa nel mondo, e wig, cioè parrucca. Il Bushwig festival è infatti una due giorni che celebra e mette in scena la cultura drag con la collaborazione di più di 160 tra drag queen e drag king americani e non, un bel risultato visto che la prima edizione del 2012 aveva visto salire sul paco solo una trentina di artisti. La cultura drag è una parte importante dell’immaginario newyorchese e questa edizione ha segnato un passaggio di consegne tra due generazioni reso palese quando una delle icone storiche della scena drag, Lady Bunny, anima del primo drag festival, Wigstock, nato in east village agli inizi degli anni ’80, ha consegnato lo scettro a Horrorchata, cofondatrice del Bushwig. «Il Bushwig è decisamente ispirato al Wigstock» ha dichiarato Horrorchata. Un passaggio questo anche geografico tra Manhattan, dove si trova l’east village e Brooklyn, che ospita Bushwick e che ancora una volta sottolinea come l’underground non possa davvero più essere di casa nella troppo lussuosa e inaccessibile Manhattan che anno dopo anno respinge sempre più in fondo a Brooklyn la parte più sperimentale della popolazione newyorchese. L’idea di un festival drag che raccogliesse l’eredità di quello degli anni ’80 è venuta quindi a due personaggi della scena di Bushwick, Horrorchata cioè Matthew Mendoza e Simon Leahy, fondatore anche del Porn Film Festival che ha avuto la sua prima edizione a Marzo sempre a Bushwick.

«Lo spazio che ci ospita quest’anno è molto più grande di quello degli anni passati – dice Leahy – ma è importante non crescere troppo e troppo in fretta, anche banalmente per non perdere l’impulso che ci ha fatto intraprendere tutto questo e che si può racchiudere in pochi termini: libertà, creatività e amore». Il festival si è svolto in un piccolo parco, sotto un tendone attrezzato con un palco dove si sono alternati gli artisti al ritmo di un nuovo artista ogni cinque minuti, un bar sotto il tendone ed un luogo di ristoro poco lontano, sotto gli alberi, che serviva bevande super naturali a base di centrifugati, estratti, tisane e panini vegani. «Che la controcultura debba accompagnarsi sempre al vilipendio degli organi vitali è in mito che va sfatato – dice Lady Starlett, nuova nella scena drag e proveniente dal vicino New Jersey – Le drag queen hanno cura del proprio corpo visto che ci lavorano, non ha senso trattarlo male, inoltre è anche un atto politico stare attenti a cosa si consuma, come l’essere fieri di quello che si è ed io sono fiero di essere una drag e del tipo di drag che sono». L’atmosfera è sottilmente diversa da come ce la si aspetterebbe, molte artiste sono sì, perfettamente aderenti all’immagine che collettivamente si ha parlando di drag queen, ma molte altre mescolano trucco ed eleganti abiti femminili con barba e gambe non depilate, mischiando le allusioni e la rappresentazione del sé e della propria identità. «Gender is overrated» recita una maglietta «il genere è un concetto sopravalutato» e questa scritta viene ripetuta e ripronunciata da tutti, artisti e spettatori, spesso indistinguibili tra loro. «Non sono qua per fare uno spettacolo, sono qua per guardare lo show – dice Serena, drag king vestita come un bel giovanotto degli anni ’20 con baffi finti ma anche rossetto – La distinzione tra maschile, femminile, travestito, è così noiosa e anacronistica. Oggi io sono una donna vestita da uomo, ma non da energumeno. Ci sono voluti anni per arrivare a questo punto ma ora ci siamo: che importanza ha come mi vesto, se corrisponde a come mi sento? E sì, tutti hanno una parte maschile ed una femminile e prima o poi sarà normale che anche uomini del tutto eterosessuali metteranno un po’ di rossetto qualche volta, quando la loro mascolinità sarà un po’ più femminile, e staranno meglio con loro stessi così. Le definizioni sono rigide per natura». In questo ambiente la tolleranza è l’elemento più visibile, seguito da spirito di gruppo e collaborazione. «È bellissimo far parte di questa famiglia – dice Sandra Dee, spettatrice, ma potrebbe tranquillamente essere sotto i riflettori per l’accuratezza del costume. Vedi la gioia degli artisti che si susseguono sul palco e di chi li acclama dal pubblico.

Gli organizzatori di questo festival stanno facendo molto più che una kermesse, stanno mettendo insieme una community». E che la community si sia spostata in un parco, uscendo dalle seppur accoglienti mura del Secret Robot Project, il locale che ha ospitato la rassegna fino all’anno scorso, è visto come un segno positivo. «Amo due cose nella vita – ha dichiarato Babe Trust, drag molto nota nel panorama newyorchese e nell’organizzazione del festival – la cultura drag e la natura, ma questi due elementi non vengono messi insieme molto spesso, invece eccoci qua, decine di drag in questo bel parco, fuori, all’aria, non sempre rinchiuse nei bar e nei club». Quest’atmosfera di famiglia allargata e tollerante ha attratto un pubblico eterogeneo che ha sfidato la pioggia che per tutta la due giorni ha fatto da padrona nel cielo newyorchese e gli stili degli artisti sono stati non omogenei.

Patty Spliff è salita sul palco cantando Mina: «Mi ci sono avvicinata per via delle melodie – dice – poi ho tradotto i testi ed è come anche io descriverei l’amore. Mina è la musica che mi rappresenta meglio». Ma accanto a Mina sono stati presenti altri e più inaspettati elementi di ispirazione. «Non mi aspettavo di vedere uno spettacolo dove avrebbero cantato ‘All tomorrow party’ dei Velvet Underground o Alanis Morisette – si stupisce Steve, newyorchese – invece il movimento gay si è spesso messo a braccetto con il rock». Questo perché sono proprio l’idea, l’autoimmagine del tipo di drag ad essere cambiate. Sempre Babe Trust si definisce Drag Punk, difficile da classificare e a dirsi scettica sull’uso del termine drag in sé: «Io sono più il trans cattivo – ha aggiunto – le mie radici sono Divine, un agitatore. Io voglio che il mio aspetto ed i miei spettacoli siano un attacco allo status quo, alla famiglia nucleare, ai ruoli di genere rigidi. Beh, la comunità Bushwig/Brooklyn è ancora ad uno stadio embrionale. Molte drag queen che vengono da questo ambiente sono famose, osservate, ma non è questo il senso di tutto, non sono i riflettori. Continuo a pensare che abbiamo bisogno di una sorta di linea guida radicale, in modo da formare uno spazio comune o, come Warhol, creare una factory. Dobbiamo forgiare Una nostra cultura, piuttosto che aderire ad una preesistente. Se questo è ciò che accadrà questo definirà la cultura drag in modo più diretto». «Il rischio che corriamo – continua Sue, giovanissima drag king – è quello di non far altro che alimentare il mainstream, qui a New York esiste una vera scena drag innovativa, di rottura, politica, aderente all’epoca in cui viviamo, non bisogna cedere alle lusinghe degli egicentrismi e degli applausi facili».