Sulla terra rossa del Roland Garros, striata di passi ripidi, di baricentri convulsi, non sono ammesse riflessioni o concessioni, qui il tennis risuona di istinti primordiali, di una respirazione brutale. La differenza tra la vittoria e la sconfitta è segnata da una linea netta, storiografica. Ma nella fotografia di Martin Parr, dell’epos di questo confronto si ritrovano solo alcune tracce residuali, elementi che rimangono sullo sfondo, decorazioni su carta da parati. Protagonista dello scatto non è una figura eroica e solitaria, uno sportivo professionista colto nella sublime manifestazione del suo movimento. A risaltare non è la specialità dell’individuo, piuttosto un ritmo visivo sfumato nel contesto, una lettura spaziale scandita dalle tese larghe e ordinarie dei panama che, simili a scintillanti sculture di avorio scolpite da un sole arido, proiettano un placido cono di ombra sulla nuca di spettatori un po’ attempati, disposti sugli spalti e intenti a seguire ogni fase del match.
Un torneo internazionale da Grande Slam, una partita tra squadre di calcio amatoriali, una giornata di attività all’aria aperta, una sessione di yoga nel parco, tutti in qualche modo incrociamo la pratica – o la teoria – sportiva. Di sport si parla, si scrive, si legge, si ascolta. Si osserva da una certa distanza oppure ci si lascia coinvolgere. Super partes oppure faziosi, indossiamo indumenti che denotano l’affiliazione a una squadra e con gli stessi colori sociali ci trucchiamo il viso e i capelli. Così travestiti pure ci riconosciamo, mentre aspettiamo in fila all’ingresso dello stadio, dell’arena, del palazzetto. Poi proviamo a emulare le imprese dei grandi campioni e non è nemmeno necessario insistere sull’ingenuità di questi tentativi. Ed è tutto questo che interessa a Martin Parr, a parte lo sport: «Mi piacciono i tornei di tennis. Questo non significa che mi piaccia il tennis di per sé».
We love Sports, noi amiamo lo sport, la mostra presentata da Camera – Centro Italiano per la Fotografia di Torino, in occasione delle ATP Finals, presuppone l’ammissione di una coralità già dal titolo, una prima persona plurale e un’emoticon universale a invocare un ideale di appartenenza, un invito alla condivisione. Visitabile fino al 13 febbraio, l’esposizione, curata da Walter Guadagnini, con la collaborazione di Monica Poggi, presenta una nutrita serie di scatti tematici di Parr, considerato un maestro del fotoreportage e, al contempo, il suo più entusiasta disertore.
Membro dal 1994 dell’Agenzia Magnum Photos, dove fu presentato da Henri Cartier-Bresson, che lo definì «di un altro pianeta», collezionista di episodi più che scopritore di avvenimenti, Martin Parr non aspetta il momento sensazionale per restituire il picco improvviso o l’escalation. Non c’è bisogno di détournement o di prelievi dalla realtà, di fortunati appostamenti o di intuizioni geniali, le storie sono sempre lì, davanti ai nostri occhi: «Sono affascinato dal mondo in cui viviamo, da come posso interpretarlo e trasformarlo in immagini».
Un espositore affollato di cartoline nella località turistica svizzera di Kleine Scheidegg, uomini che sfoggiano orgogliosi parrucche blu elettrico mentre protendono le mani verso l’alto per celebrare un goal durante una partita tra Giappone e Corea del Sud, donne fregiate con cappelli vistosi e fasciate in abiti eleganti e stropicciati dal caldo, al July Horse Races di Durban, in Sudafrica. E poi, ventri prominenti di giocatori di bocce della provincia inglese, casacche sporche di fango di un giovane giocatore di rugby, persone in fila per la toilette. Sono 150 le fotografie di vario formato e soggetto esposte da Camera, che ripercorrono tutta la ricerca di Parr, da una parte all’altra del mondo, attraverso il filtro dello sport. Dal bianco e nero dei primi esperimenti, che risentono ancora della lezione dei grandi fotografi americani, come Garry Winogrand e Robert Frank, fino ai colori sgargianti dei progetti dedicati ai maggiori tornei di tennis, innumerevoli sono le esistenze ritratte nelle loro imperfezioni, nella loro artificialità, nella sincerità.
D’altra parte, che lo sguardo di Parr dovesse ricadere sullo sport era una eventualità segnata dalla nascita, nel 1952, a Epsom, placida cittadina della contea del Surrey, famosa soprattutto per il Downs Racecourse, uno degli ippodromi più importanti al mondo e nobile sede della gara del Derby. Nella passione per la fotografia del nonno George, che per primo lo indusse a praticare tale mezzo, si può rintracciare la radice di un atteggiamento non accademico, scanzonato, disincantato rispetto agli obblighi formali ma comprensivo, affezionato. Nel corso della sua carriera, che a oggi conta circa ottanta fotolibri e più di cento mostre in tutto il mondo, oltre a svariati premi, tra cui il Sony World Photography Award nel 2017, Parr avrebbe maturato una consapevole idea di stile, diventata iconica anche grazie a uno spregiudicato utilizzo della tecnica.
Sinceramente sedotto dal nuovo statuto liquido delle immagini, ha iniziato a usare le fotocamere digitali nei primi anni Duemila, curioso sperimentatore delle piattaforme dei social network, è attivissima la sua pagina ufficiale su Instagram. Leggendarie le sue saturazioni con il flash a luce diurna, versato con generosità su gruppi di turisti assiepati tra le rovine di Pompei, su famiglie concentrate nella liturgia del pranzo al sacco, sulle membra appesantite di giocatori di carte e su corpi seminudi cosparsi di olii abbronzanti o appena usciti dal mare, come nella fortunata serie dedicata alle spiagge che, esposta da Camera, chiude un percorso presentato con la consueta eleganza e precisione, con qualche concessione pop. Come nel caso della sala pavimentata di erba sintetica blu di ultima generazione, a richiamare la presenza dello sport anche attraverso un contatto diretto, immersivo.
Ma già tattili, presenti nello spazio, risultano le immagini di Parr, fotografo che lavora di gusto con la consistenza di una storia in continuo svolgimento in ogni parte del mondo e che, qualche volta, si concentra in certe occasioni, intrecciandosi alle persone e agli oggetti, ai gadget a buon mercato e alle espressioni somatiche, lasciando emergere piccole vicende che andrebbero irrimediabilmente perse nel rumore di fondo dell’esistenza, se non fosse per l’intervento di un osservatore sensibile. Perché, più della verità o del realismo, della cronaca o del racconto, la materia di Parr è la vita stessa, la dolce preziosità dei suoi simboli stereotipati, le sensazioni da tramandare, i suoi colori vividi da custodire.