«Quel che conta in una foto non è il soggetto, ma la nostra relazione con il soggetto»: in questa frase, che Martin Parr ama ripetere, sta tutta la sua poetica. Divenuto famoso per la tendenza a privilegiare, suggerendone al contempo tutta l’ambiguità, gli stereotipi da cui i fotografi abitualmente si tengono a distanza, Parr ha continuato, nell’arco di una quarantina d’anni di attività, a proporre immagini di gente comune e oggetti quotidiani, còlti in pose e situazioni grottesche, sconvolgendo tanto la street photography quanto la fotografia documentaria. Anche se ha scattato in tutto il mondo, stigmatizzando con ironia il turismo di massa, il suo sguardo, fin dalla serie degli anni Settanta sulla comunità religiosa dei non conformisti, è particolarmente attento a decostruire, enfatizzandoli, i più abusati cliché sul suo paese e i suoi compatrioti. Da The Last Resort, sui vacanzieri della spiaggia popolare di New Brighton nell’èra Thatcher, sino al recentissimo Think of Scotland (Damiani, pp. 140, euro 35,00), la fotografia è per Parr una sorta di terapia per comprendere meglio l’amore-odio nei confronti del proprio stesso paese.
Le sue foto sono documenti unici per conoscere la Gran Bretagna e i suoi abitanti. Mi viene dunque spontaneo, per iniziare questa intervista, chiederle qual è il suo atteggiamento nei confronti della Brexit e delle sue possibili conseguenze.
Io e i miei amici siamo tutti inorriditi dalla Brexit e da quanto appare ogni giorno sui giornali. Non solo per ragioni, per così dire, estetiche, ma soprattutto per motivi economici: tutto sarà più caro, aumenterà la disoccupazione, ci saranno tagli notevoli al Servizio Sanitario Nazionale, si perderanno molti posti di lavoro… Per farla breve, sarà un disastro totale. E non vedo alcuna via d’uscita, perché entrambi i maggiori partiti dicono che bisogna rispettare la volontà del popolo, anche quando il popolo non è affidabile. C’è stato un referendum, questo è l’esito e va rispettato. Ma chi ha votato Brexit non sapeva a che cosa andava incontro. Erano solo molto arrabbiati con il governo. È stato un voto di protesta.
Salman Rushdie ha affermato che oggi la Gran Bretagna sembra un paese che sta facendo un picnic sui binari della ferrovia. Questa immagine mi ricorda un po’ certe sue foto di picnic in luoghi assolutamente incongrui, immagini che a tutta prima ci fanno sorridere, ma che celano un significato amaro…
Sì, sono d’accordo: è una frasetta divertente ma acuta. Vede, con la Gran Bretagna io ho un rapporto di odio e amore, e in questo momento l’odio sta prevalendo. Sono profondamente arrabbiato con il mio paese e non posso evitare di mostrarlo nel mio lavoro. Sto pensando a un progetto chiamato Brexit, comprendente foto scattate dopo il 20 giugno 2016. Oggi in Inghilterra c’è una rabbia simile a quella che c’era al tempo della Thatcher, negli anni Ottanta, quella rabbia da cui sono nate le foto di The Last Resort, la rabbia che allora accomunava tutti gli artisti inglesi, perché tutti gli artisti erano anti-Thatcher, erano tutti di sinistra, e oggi è lo stesso, è rinata quella rabbia.
So che lei ha creato una fondazione con lo scopo non solo di custodire i suoi archivi, ma anche di «sostenere e preservare l’eredità dei fotografi che hanno prodotto e continuano a produrre lavori importanti sulle Isole Britanniche». Trovo che questo sia molto importante: all’estero, solo pochi fotografi britannici sono conosciuti. Ad esempio, lei ha affermato che il momento più importante per la sua carriera è stato quando ha visto per la prima volta le foto di Tony Ray-Jones. Vuole parlarci di questo grande fotografo misconosciuto e del perché è stato tanto importante per lei?
Tony Ray-Jones riuscì a fotografare l’Inghilterra come mai prima, perché andò negli Stati Uniti, conobbe i fotografi americani all’avanguardia che erano attivi in quel periodo – Winogrand, Friedlander –, e ne apprese il linguaggio. La sua fotografia è molto più conscia del fondamento narrativo delle immagini di quanto non lo fosse la precedente fotografia inglese. Ray-Jones portò una nuova consapevolezza: sviluppò il suo stile in America, ma poi, per così dire, portò la fiamma in Inghilterra. Questo mi colpì nelle sue foto: la capacità di rilevare con estrema efficacia ciò che è curiosamente inglese, le idiosincrasie degli inglesi. Non fu mai popolare neppure in Inghilterra, era un fotografo per fotografi, ebbe una mostra all’ICA nei tardi anni Sessanta, poi morì giovanissimo e il suo lavoro uscì postumo nel 1972. Io non l’ho mai conosciuto, ma lo amo ancora molto e ho curato la sezione a lui relativa della mostra Only in England, organizzata al Museo della Scienza di Londra nel 2014.
Ho visto quella mostra, e oltre alle foto mi hanno colpita i taccuini di Ray-Jones. In uno c’era un ammonimento di cui, secondo me, lei ha fatto tesoro nella sua carriera: «Non fare mai fotografie noiose».
Oh, no, ho fatto un sacco di foto noiose: soltanto, non le mostro a nessuno…
La sua fondazione si propone anche di raccogliere foto delle Isole britanniche scattate da stranieri. Qual è il criterio usato per selezionarle?
Qualche tempo fa ho curato una mostra al Barbican, Strange and Familiar, su questo argomento. Sono riuscito a ottenere gran parte di quelle foto e da lì è nata la collezione. Del resto, avevo già accumulato molte immagini di fotografi stranieri sulla Gran Bretagna negli anni precedenti. Un fotografo italiano che mi ha particolarmente interessato è Gian Butturini, che venne in Inghilterra negli anni Sessanta, e fece un lavoro molto buono sulla swinging London, allora la capitale del mondo. Il suo volume, London, è appena stato ristampato da Damiani.
A parte la fotografia, riconosce altri influssi sul suo lavoro: musicali, cinematografici, letterari?
Tutto mi influenza, ma niente in particolare. Tutto entra nel gioco, ma i miei influssi restano fondamentalmente fotografici. Però mi piacciono particolarmente i comici, soprattutto gli stand up comedians inglesi e americani, sanno toccare i nervi scoperti della società, sono interessati alle debolezze, un po’ come me.
Ma lei, come fotografo, si considera piuttosto un documentarista o un narratore?
Un po’ tutt’e due: dietro a ogni foto c’è una storia, ma se devo proprio scegliere una definizione, la mia è fotografia documentaria, che poi inevitabilmente significa raccontare storie sulla propria relazione col mondo, in maniera molto soggettiva. Io desidero fare foto divertenti, che però hanno un lato oscuro, o malizioso. Si tratta di smascherare quello che io chiamo propaganda. Tutti vendono qualcosa con la fotografia, tutti hanno un programma da rispettare, dei secondi fini. Il mio programma – perché anche io ne ho uno – è raggiungere una verità personale piuttosto che la verità con la «V» maiuscola.
E qual è la «verità personale» di «Think of Scotland»?
È la mia relazione ininterrotta con la Scozia, questa terra che è molto più trasparente e onesta dell’Inghilterra: non è un caso che abbia votato «Remain» al referendum! Ho selezionato venticinque anni di fotografie, cercando di raggrupparle in capitoletti che avessero un senso compiuto, scegliendo le immagini migliori.
Migliori in termini di tecnica fotografica o di contenuti?
Dipende. A volte occorre solo la fotografia giusta per riempire un vuoto narrativo, certe immagini hanno una funzione particolare, ma in linea di massima si cerca sempre di trovare le migliori, qualunque cosa ciò significhi. Non posso definire che cosa intendo per «migliore»: la fotografia funziona quando presenta qualche ambiguità, quando esprime qualche contraddizione. Deve esserci una certa tensione in atto che permette al tutto di funzionare. Se sapessi come crearla, potrei smettere di fotografare.