Sembra un luogo comune: il dono inaspettato. Non lo è, non lo sarà in futuro. Soprattutto quando un amico se ne va e la notizia circola improvvisa e secca, inappellabile. Eppure è come se funzionasse una sorta di trasmittente nascosta nelle pieghe delle cose, nei viluppi del tempo che svanisce attimo dopo attimo, e quell’amico ha lasciato un regalo prezioso, appena dopo aver fatto un segno di saluto con una mano che oscillava, piano, piano, a dire «ci rivediamo, prima o poi».

Gianmaria Testa è stato amico di molte persone. Di una prima ristretta schiera, quelli che avevano a che far quotidianamente o quasi con i suoi occhi curiosi e indagatori, con le sue spalle larghe che sembravano caricare un peso contadino sul dorso sinuoso della chitarra, incombendo sul calice di vino bianco posato sul tavolo accanto. Di una cerchia più allargata, ma forse non meno intima. Quelli che avevano imparato a fidarsi di un uomo, prima che di un autore di canzoni, di uno vero che quando scriveva qualcosa lo faceva perché aveva da dire qualcosa, non una pendenza col mercato. Gianmaria Testa se n’è andato in punta di piedi (il 30 marzo scorso, ndr) e ha lasciato una cosa che non ci aspettavamo, e della quale parleremo. Un libro. Prima ha lasciato qualche disco che ci conserverà per sempre l’impronta, il calco sonoro di una voce che tra pieghe aspre e vibrati impercettibili continuerà a parlarci all’infinito. Racconta Pietro Leveratto, contrabbassista del più nobile jazz italiano contemporaneo, uno che ha accompagnato i più grandi, e dunque anche Testa: «Gianmaria scriveva cose semplici di una difficoltà estrema. Faceva sembrare leggere cose pesantissime, volava dove altri avrebbero arrancato col fiato corto. Io ho sempre avuto rispetto per chi ha quel dono». Quel dono di arrivare alla sintesi non per chissà quale dono innato di facilità di scrittura, ma per aver semplicemente ragionato sulle cose scegliendo la via meno ovvia, la meno gratificante, quando urgono invece ragioni della pancia e delle viscere che aprono la strada all’affermazione roboante e beota.

Gianmaria Testa aveva pensiero affilato e radente, a scoperchiare e rimuovere in un trancio di lama l’epitelio duro del luogo comune. L’aveva fatto in un disco che si intitola Da questa parte del mare, diversi anni fa. Bellissimo e struggente, ma di una durezza commisurabile a quella della vita vera. Affrontato come un lavoro da fare: spiegare (a se stesso, in prima battuta: poi a chi avrebbe ascoltato in seconda) cosa voleva dire trovarsi all’alba livida del terzo millennio, e dove, ancora una volta, scappare, forzare confini, buttarsi in una terra incognita per scampare a una terra matrigna di sentimenti, e madre invece di fame e torture, umiliazioni e assenza di fortuna. All’epoca, era il 2007, nei telegiornali li definivano «clandestini», oggi il politically correct li chiama «migranti» o «rifugiati», ma la sostanza davvero non cambia. Oggi sono, perlopiù, i respinti e gli annegati. Sempre di più, e con le mani sempre più scorticate dai fili spinati della fortezza Schengen.

Gianmaria lo sapeva che non era cambiato nulla, da quando fece uscire quelle canzoni, che la scorza dura delle pance piene non avrebbe trovato pietà per quelle vuote. E Da questa parte del mare è diventato, pensiero dopo pensiero, un libro. Con la prefazione dell’amico di sempre Erri De Luca. Pubblicato da Einaudi. Bello, duro e struggente come le canzoni che ne rappresentarono l’epitome. Come se Gianmaria avesse preso i testi delle sue undici canzoni, avesse scrollato i fogli che contenevano le righe, e dalla carta si fosse liberato per aria il molto di pensiero e di fatti che c’era nascosto dietro ogni singola storia di migrante immaginata, ascoltata, ricostruita. Poi quel «molto» è diventato, ancora una volta, parola scabra, asciugata: perché Gianmaria Testa è narratore semplice e petroso, di disarmante e asciutta chiarezza, non fumisteria di polvere estetizzante. Diceva «ho l’impressione che nei confronti delle migrazioni abbiamo avuto un sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti».

Il regalo nel regalo di questo libro piccolo e ad altissimo peso specifico è in coda, poesie di Testa ritrovate e raccolte, spesso brevi e delicatamente tese come un haiku: «Quanto meno/ un’ombra/ racconta/ di una luce».